mercoledì 18 gennaio 2017

NOMINA NUDA TENEMUS / 4: SPILAMBERTO: UN PROFUMO ANNUNCIATO

Nell'immagine: affresco di Fermo Forti nell'abside della Chiesa di Sant'Adriano.
Il Santo, in abiti pontificali, è inginocchiato alle porte di Spilamberto e chiede l'intercessione divina sul Castello: ed ecco che il cielo si illumina e gli angeli mandano rose, simbolo delle grazie ottenute
(fotografia e informazioni di Graziano Giacobazzi) 


Nel Medioevo profondo un terreno praticamente spopolato, quello su cui si insedierà poi Spilamberto, è però ben documentato nei manoscritti dell’epoca.
Certo, si tratta di nomi – Casale, Castiglione, Verdeta – che rimandano a un contesto spezzato: ci sono fattorie, un piccolo borgo fortificato, un giardino, ma mancano le caratteristiche che permettano di garantire al nostro territorio una identità riconoscibile, individuandolo con un nome unico.

C’è però un antefatto che, a nostro avviso, preannuncia se non il nome di Spilamberto almeno il suo profumo; un episodio accaduto alla metà del IX secolo rivela infatti l’urgenza di dare un nome al territorio ancora anonimo di Spilamberto.

Bisogna anzitutto ricordare che nella zona di S. Cesario era insediata la “curtis” di Wilzacara. “Curtis”, o corte, nel periodo feudale è quell'insieme di ville ed edifici da cui il signore esercitava il controllo sul territorio, e rappresenta il perno della cosiddetta “economia curtense”.
Wilzacara era ben conosciuta ed importante, e si estendeva probabilmente anche nell’area che ora è parte del territorio di Spilamberto. In questa zona nell’anno 885 transitava il papa Adriano III, invitato da Carlo il Grosso a Worms, in Germania; e proprio qui il pontefice “finì la vita”, probabilmente assassinato.

La morte di un papa rappresenta un evento importantissimo, di cui è necessario dare notizia rapidamente, indicando anche il luogo dove è avvenuto. In un documento scritto a Roma si comunica che Adriano III è morto a Wilzakara; un manoscritto prodotto nell’abbazia di Fulda, in Germania, afferma invece che il fatto è avvenuto “Heridano flumine transito”, al di là del Po.
Il motivo della diversa indicazione è evidente: in Germania era sufficiente scrivere una collocazione molto generica, mentre a Roma è richiesta una maggiore precisione, che spinge a scegliere un riferimento approssimativo ma conosciuto come appunto Wilzacara.

Tuttavia studi recenti affermano (sulla base di dati di cui parleremo prossimamente) che il probabile assassinio avvenne a Spilamberto, nel suo territorio; ma allora Spilamberto non aveva ancora un nome, e dunque non poteva essere un riferimento per gente che viveva a Roma o addirittura in Germania.
Da allora la contesa con S. Cesario per attribuirsi l’evento non si è mai sopita. Lo scippo al nostro paese di questo evento, importante per caratterizzare la sua storia e con conseguenze anche sugli equilibri religiosi e finanziari dell’epoca, ebbe un peso rilevante e accelerò senz’altro l’esigenza di dare una denominazione chiara ed univoca al nostro territorio.

In conclusione, non “tenendo” un  nome Spilamberto anticipava, con il suo profumo, l’esigenza di averlo. I tempi erano maturi.
E gli spini? Quando e perché cominceranno a pungere?

mercoledì 11 gennaio 2017

"PAGINE DI DIARIO" / 14

Da “Per piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.



Franca Santunione – a destra -  e la sorella Anna all’età di, rispettivamente, 7 e 9 anni.



Parte settima

[...] Era un pomeriggio anche quel giorno e noi ragazzine facevamo un gioco che consisteva nel fare un riquadro per terra a ridosso della Rocca. Ognuno di noi faceva il suo, e questo rappresentava la propria casa, che addobbavamo con pochi giocattoli e cianfrusaglie varie. Finito di fare questo, abbiamo pensato di farci il vestito da sposa con dell’erba che cresceva nei posti meno calpestati del piazzale. Questa era una piantina che aveva una punta centrale, poi si allargava raso terra come un ombrello con lunghi fili d’erba, con attaccate tante minuscole foglioline. Staccavamo tutta intera questa piantina, e univamo insieme questi lunghi fili e ne usciva una specie di pareo che arrivava fino a terra. C’eravamo fatte anche il velo, col risultato che avevamo la testa piena di terra. Finito di fare questo, non ricordo se una di noi andò a chiamare dei ragazzini che giocavano all’altro lato del piazzale, o se arrivarono perché incuriositi da come eravamo conciate. Comunque sia, una volta giunti, venne chiesto loro se volevano partecipare al gioco scegliendo come moglie la ragazzina che più gli piaceva. Chi da uno, chi da un altro, tutte vennero scelte... io non fui scelta da nessuno. Era rimasto libero un ragazzino un po’ gnoccolone, ma neppure lui mi ha voluta come moglie, allora venne deciso che lui doveva fare il prete, e io il chierichetto. Deciso questo, abbiamo formato un corteo e siamo andati sugli scalini della chiesa che si trovava su un lato del piazzale a celebrare il rito del matrimonio. [...] Io ero piombata in uno stato di profonda e totale mortificazione e tutto avevo, tranne che ancora voglia di giocare, così me ne andai a casa. Lì trovai mia madre e mia nonna (era mia bisnonna). Mia madre come mi vide capì che stavo quasi per piangere; allora mi chiese cosa mi era successo. Raccontai cosa mi era successo, finendo col dire che nessuno mi aveva voluto sposare perchè ero brutta. Mia madre si mise seduta e disse:
«Franca vieni qua, e non dimenticare mai quello che ti dico... Ti ricordi la favola di quell’anatroccolo (evitando la parola brutto) che nessuno voleva vicino, ma che col passare del tempo diventò un bel cigno, mentre gli altri rimasero tutti delle normalissime anatre; così sarà anche per te... Tu diventerai una bella ragazza, e quando i ragazzi incominceranno a fare gli stupidi, li devi mandare tutti all’inferno!» (Cuore di mamma!) [...]
Parole dette per consolarmi, ma che io presi senza mettere in dubbio che così sarebbe stato. Mia madre non poteva avere mentito [...].
Questo episodio e quello che riguardava i miei occhi (vedi precedente puntata), mi fecero diventare un’ottimista; non mi sentivo più inferiore agli altri ragazzini. Le loro parole mi avevano suggestionata al punto che mi sono sentita subito bella, con addosso una gran voglia di ridere, cantare e saltare dalla gioia.
Avrei tanto voluto raccontare a tutti la ragione di questa mia felicità, ma non lo feci. Non so se fu per pudore, o solo perchè, presa da questa euforica esaltazione, aspettavo con ansia di vedere sul volto delle persone del paese lo stupore della mia metamorfosi!
Mentre aspettavo che si verificasse questo evento, che assomigliava molto a un miracolo, mi sembrava diventato meno opprimente anche l'ambiente famigliare [...]

mercoledì 4 gennaio 2017

ROCCA DELLE MIE BRAME / 19: “LA PICCOLA PARIGI” NON CEDE AL PROPRIO TRAMONTO

Fotografia da raccolta privata

Le grandi civiltà, ce lo insegna la storia, hanno avuto un loro culmine, hanno raggiunto il loro massimo splendore; inesorabile è arrivata la decadenza. Quest’ombra paurosa sembra allungarsi anche per la nostra Rocca. Lasciateci pertanto godere ancora per un po’ dei momenti che si snodavano nel nostro paese nell’estate del 1733.
Un continuo afflusso di nobiltà locale e straniera occupava la Rocca, percorreva le lineari strade del “Castello”. Ma non era solo l’affollamento di gente di rango che portò a definire Spilamberto “una piccola Parigi”. Un fruscio di abiti eleganti, il balenare di tessuti preziosamente colorati, il brusio di accenti diversi. Cavalli, cocchi, calessi, carrozze accolti nel maestoso “stallone” e... bagagli, cassoni, scaricati da paggi e servitori. La sensazione dell’autorevolezza della ricchezza concentrata in cose e persone.
Quasi un’atmosfera irreale.
Fu così, questa, un’estate di fasti, immersi nella famosa e gratuita “aria salubre” offerta dal Panaro.
Un fermento simile si percepì e ripeté anche nell’umida, ma clemente, stagione autunnale del 1734: furono i diciannove giorni della “Fiera di Ognissanti” a fornirne l’occasione. Allora ecco le principesse Benedetta ed Amalia, sorelle del principe ereditario Francesco III d’Este in visita a Spilamberto, ma anche tanto popolo nelle strade: commercianti che trattavano i propri affari; contadini che vendevano i loro prodotti; gente semplice che gioiva alla visione di quel bailamme; scenografie gratuite e stupori assicurati. Ceste di ortaggi e frutti variopinti fungevano da quinte all’ architettura castellana, mentre il portone della Rocca fagocitava interminabili presenze.
Insomma, un tardo autunno degno di essere riprodotto nelle Images d'Épinal: stampe già popolari a fine Settecento, di tono forse un po’ chiassoso, a testimone di un paese che, associato a Francia, Parigi, ancora non si poteva certo definire provinciale.

(Testo ispirato da notizie tratte da “Una Cronaca settecentesca”, a cura di Criseide Sassatelli, ed. Comune di Spilamberto.)

mercoledì 28 dicembre 2016

NOMINA NUDA TENEMUS / 3: UN TUFFO TRA CASALI, CASTELLI E GIARDINI


(Particolare di pergamena conservata presso l’Archivio dell’Abbazia di Nonantola, nella quale si leggono gli antichi nomi del territorio spilambertese)


L’importanza dell’Ospitale di San Bartolomeo – lo abbiamo visto nella scorsa puntata – risiede anche nel suo essere stato un riferimento geografico fondamentale per individuare il territorio spilambertese nell’antichità, prima ancora che comparisse il nome stesso del paese.

Secondo le prime carte che lo descrivono, l’Ospitale si trovava in una località nominata “Casale”, “Castiglione” oppure “Verdeta”: così si chiamava il nostro territorio in documenti antichissimi di età longobarda, risalenti a prima dell’800 d.C.
Questi nomi sono importanti, perché ci parlano della situazione del territorio di Spilamberto diversi secoli prima della fondazione del paese.

Il nome “Casale” probabilmente rimanda, come nell’italiano d’oggi, ad un edificio di campagna, e nel latino dell’epoca indica anche il terreno che vi sorge attorno. L’immagine che ci viene trasmessa dal nome è dunque quella di un territorio per lo più disabitato, punteggiato solo da qualche casolare sparso.

“Castiglione” è senz’altro un diminutivo di “castello”. Non dobbiamo però pensare al castello medioevale con mura, torri e ponte levatoio, ma piuttosto a un piccolo borgo fortificato. Non si può escludere che esistesse sul territorio di Spilamberto un paese prima dell’attuale; è più probabile però che a qualche chilometro dall’odierno centro abitato vi fosse un insediamento fortificato preromano o romano, riutilizzato in epoca altomedievale. Infatti al termine di via S. Liberata è stata individuata una fattoria romana, e il luogo denominato Ergastolo fa riferimento al locale in cui venivano tenuti gli schiavi in catene durante la notte.

Più affascinante il significato del nome “Verdeta”: la località è chiamata così perché, come recita un documento del 776 d.C., “vi si trova il giardino di piacere del Re (il longobardo Astolfo)”. Un giardino, un parco regale sorgeva dunque sul territorio che oggi è Spilamberto.

Tre nomi dunque per il nostro territorio in epoca antica: ma tra casali, castelli e giardini… dov’erano le spine che danno oggi il nome al paese?

[Le informazioni e l’immagine sono tratte da C. Caprara - C. Cevolani - P. Corni, “In loco qui dicitur Spino Lamberti” e da S. Cevolani, “Prima del castrum”, pubblicati rispettivamente nel 2010 e nel 2012 dall’Istituto Enciclopedico Settecani]

mercoledì 21 dicembre 2016

CAPRICCI DIALETTALI / 6: NATALE 2000


Corriere della Sera: nella presentazione del nuovo libro del filosofo Stefano Zecchi leggiamo che “il progresso e il globalismo hanno danneggiato la tradizione intesa come radicamento in una storia che costituisce la tua identità”; questo fenomeno “ha portato l’Occidente ad essere sì un Paradiso, ma dal ventre molle, a essere una grande luminaria per il resto del mondo ma, in realtà, una piccola bottega in totale abbandono verso la propria tradizione, succube di modelli di sviluppo che non erano i suoi propri.”

Cosa ha a che fare questo con Spilamberto e con il Natale?
Il collegamento è dato da una poesia natalizia pubblicata alcuni anni fa da Silvio Cevolani, che introducendola scriveva:
“Per carità, non mi lamento, la vita è certamente migliorata. Ma questa società di impiegati e montatori che tutti la sera guardano la stessa televisione, tutti sgranocchiando pop-corn che arriva da chissadove grazie a mirabili conservanti, ebbene, questa società mi lascia perplesso. A volte mi dà l'impressione di un motore che gira a vuoto; sempre mi trasmette un senso di fragilità e la netta sensazione non di un perfezionamento ma di una non necessaria frattura nei riguardi del modo di vivere che abbiamo seguito per secoli. Ed ero preso da queste riflessioni quando, la vigilia di Natale del 1998, tornando da un malinconico giro in una Piazza semideserta, scrissi questi pochi versi…”

Ed ecco dunque i versi di Silvio, con i quali facciamo a tutti i nostri lettori i migliori auguri di un sereno Natale.

Long tota la Piaza, fra Roca e Turoun,
l’é tota ‘na lus, l’é tot un lampioun.
Ch’el quater buteigh gli han fat la vedreina
coun lus, musicata e na man d’purpureina.
I ein poch qui chi pasen, i ein svelti e sicuri,
e seinza fermeres is disen: «Avguri!»
I ein poch: tot chi eter i ein bele a la Cop
chi coumpren pandori, champagne e culotte.
Turnessa al Bambein in ste mond ed lampioun
al post ed ‘na stala igh darevn un scatloun.


[Natale 2000, da S. Cevolani e G. Cevolani, Storia di Spilamberto a Sonetti, Mercatino di via Obici, 2003]

mercoledì 14 dicembre 2016

“PAGINE DI DIARIO”/ 13


Parte seconda

[...] Mia madre lavorava alla Sipe, che era una fabbrica di esplosivi. Lei faceva i turni dalle sei del mattino alle due di pomeriggio e mangiava là. Noi eravamo a casa da soli. Mia madre, per non lasciarci soli, fino dall’età di sei mesi e mezzo ci aveva messi a balia da una vicina di casa: la chiamavamo nonna Faustina. Nonna Faustina ci ha voluto molto bene e anche noi l’amavamo molto. L’unica cosa è che puzzava, ma noi non ci si badava. Metà dello stipendio di mia madre serviva per pagare lei.
A quell’epoca non c’erano gli asili nido e noi eravamo due gemelli senza padre.
Alla nonna Faustina abbiamo voluto tanto bene, come a una mamma, e lei ce ne ha voluto come se fossimo suoi figli. La ricordo ancora oggi con amore. Ancora oggi ricordo quella casa buia a solaio, con una piccola finestra che guardava la via Obici. Una cucina nera, con due fornelli in pietra, e si faceva il fuoco con il carbone. C’era sempre un gran fumo ed era nerissima. C’era poi una rete che faceva da letto e sulla quale abbiamo fatto così tanti salti fino a disfarla. Nonna Faustina non aveva il gabinetto in casa e, come tutte le vecchie di una volta, non portava le mutande: quando doveva urinare andava nella stalla, che era al pianterreno, si metteva a gambe aperte, con una mano spostava il grembiule e quando aveva finito si puliva con lo stesso grembiule che veniva lavato ogni quindici giorni. Figuriamoci l’odore che poteva fare! Nessuno aveva l’acqua in casa: c’erano i pozzi.
La via Obici era una via di stalle e di cavalli e birocci che servivano per andare in Panaro per prendere la ghiaia per i frantoi. Quella casa era la mia seconda casa. Grazie nonna Faustina per il bene che ci hai voluto. Non ci hai mai fatti sentire soli, specialmente in quei tristissimi anni. Tu sarai sempre nei miei pensieri. [...]

Nell'immagine: casa, ora ristrutturata, sita in via Obici, nel cui sottotetto abitava “nonna Faustina”; al piano terra vi era la stalla.

mercoledì 7 dicembre 2016

IL GIGANTE SPINALAMBERTO / 1: “BERTO PER GLI AMICI”



Ed eccolo Berto: adulto; il fisico possente in riposo su un tallone, ma dinamico, proteso a una nuova partenza, pronto a scattare, a difendersi e a difendere. Ispira senso di sicurezza e protezione, più che aggressività. Abbigliamento ed arma richiamano una storia lontana, che è quella del nostro paese. La robusta clava fa pensare ad Ercole, ci proietta in un’aura mitica, ma l’abbigliamento pesante è tipico di un clima continentale.
Il disegno e il personaggio ricalcano esattamente i confini di Spilamberto. È dal contorno di essi che Fabiano Amadessi ha ricavato questa figura, che diventa una bella allegoria del nostro paese. Ci rimanda alla sua antica storia, al mito del nome, alla sua nascita legata alla necessità di difesa; allora erano i bolognesi i nemici. Dalle sue spalle emerge il senso di protezione, un dinamismo che sollecita la capacità di riprendersi anche dopo momenti di crisi. Ebbene, sono tutte proprietà che uniscono l’uomo e il paese.
Poi Berto, seguendo una caratteristica degli Spilambertesi, è un narratore e, siccome ama i bambini, si ritrova spesso con un gruppo di loro sotto una quercia in un luogo appartato, a Collecchio, e lì racconta storie, a volte legate a fatti reali, a volte più fiabesche. I bambini sono affascinati e a loro piacciono soprattutto quelle legate al “doppio”.

Vi diamo appuntamento per leggere le sue storie.