“Cosa c’è in un
nome? Quella che noi chiamiamo rosa non perderebbe il suo profumo se avesse un
altro nome”.
Così dice
Giulietta a Romeo, distinguendo la persona reale di Romeo, che le parla sotto
il balcone e che lei ama, dal nome che lui porta, quello di un nemico che ella
odia.
I nomi che noi
diamo alle cose non sono le cose stesse, sono solo concetti mentali che ci
servono per comunicare. Allo stesso modo Umberto Eco nel romanzo “Il nome della
rosa” sottolinea il distacco dei nomi dalle cose: “nomina nuda tenemus”, noi
“possediamo (solamente) dei nudi nomi”. Il nome che diamo alla rosa, dunque,
non è la rosa reale con il suo profumo.
E il profumo di
Spilamberto? Quello è rimasto lo stesso al di là della vicenda dei nomi (eccoli
qui!) con i quali il nostro territorio è stato identificato nel corso dei
secoli; una vicenda che proveremo a seguire e ricostruire in questa rubrica,
partendo da un momento precedente all’esistenza stessa del paese.
Nel 1210, quando
viene fondato dai modenesi, Spilamberto infatti ha già il proprio nome, frutto
di una lunga evoluzione su cui ci soffermeremo.
Ma prima della
fondazione del paese, esisteva già un territorio, quello nel quale oggi
viviamo. Ebbene, quel territorio, anche se probabilmente deserto e disabitato
(torneremo sul problema), aveva un proprio nome, anzi, più d’uno.
“Nomina nuda tenemus”: forse non c’era niente, ma di
quella Spilamberto almeno possediamo (solamente, o quasi) i nudi nomi.[Nell'immagine: disegno di Gustavo Cevolani]
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