mercoledì 22 febbraio 2017

ROCCA DELLE MIE BRAME / 20: INCUBI NOTTURNI

(Affresco parietale: “Casa di Livia”, Roma.)


Luigìn si arrotolava, smaniava, sul suo paglione; insistente un cinguettio di uccelli, lo beccavano e non riusciva ad allontanarli ...finalmente si svegliò, e le visioni angosciose sembravano allontanarsi.
Non era solo in quella stanza, non più uccelli colorati da scacciare tra il fitto fogliame. I suoi fratelli erano lì accanto, tranquilli, Tonio, Tommaso, Flipèin: tutti continuavano a dormire.
Soltanto un suo incubo; il sonno degli altri era ancora pesante.
Era stata una giornata particolare. Valeva la pena esserne storditi.
Quel giorno di giugno del 1763 aveva accompagnato il capitano Giacinto Fabriani, suo zio, nella Rocca, chiamato dal Marchese Lotario Rangoni.
Con stupore aveva percorso quell'infilata di stanze osservando oggetti sconosciuti, come i loro nomi: il canapé, trecce di canne d’India; le cadreghe (ma le sedie le conosceva).
Immagini in alto: uccelli variopinti volavano, becchettavano, si confondevano tra chiazze di verde inseguendoli con giravolte. Così vividi e sorprendenti da essere i protagonisti del suo incubo.
E poi l’entrata nella “Stanza della Spia”! ma dov’era quella spia? bisognava cercarla, era nascosta? Nulla ne spiegava il nome; pochi oggetti e poi un’altra visione: non un paglione nella stanza che seguiva, ma un letto con drappeggi di seta verde ricamata a fiori dorati.
Cosa serviva tutta quella stoffa lì attaccata a quel letto?
Vedersi poi incorniciato in oro sopra alla balaustra del camino lo lasciò immobile e intontito, finché lo zio lo scosse deridendolo: non riconosceva uno specchio!
Lo zio continuava ad elencare prendendo nota: scatole ricamate, scatolette dorate, spazzole, cuscinetti, vasetti, pizzi. E ad un tratto quel crocefisso là in alto: istintivamente si fece il segno della croce.
Accumulo di sensazioni, sorprese intense che nella notte si erano naturalmente liberate nell’incubo.
Ormai lo stordimento di quel sogno svaniva.
Luigìn raggiunse la finestra; la luminosità della luna gli disse che la realtà era soltanto quella che poteva vedere oltre il suo davanzale.
Si rimise sul paglione di fianco ai fratelli. Il sonno lo avvolse tranquillo.

(Le descrizioni di ambienti, dipinti ed oggetti presenti nella Rocca di Spilamberto, come pure i personaggi del Capitano e del Marchese, sono tratti da documenti manoscritti originali, “il resto è fantasia!”) 

mercoledì 15 febbraio 2017

PAGINE DI DIARIO / 15

Da “Quel Piazzale della mia infanzia”, di Laura Bertarelli (stampato nel maggio del 2015).



(Castelvetro, 1943: Laura con il nonno paterno, Celso)


Parte sesta

[...] Nel periodo dell’ultima guerra si radunavano in parecchi in quella stanza detta “capunera” perché era a pianterreno ed è stata teatro di molte vicissitudini e paure, specialmente la sera quando passava “PIPPO” e bombardava (Pippo era un aereo americano).
Quante raccomandazioni e preghiere venivano dette, tutti appoggiati al muro, in camicia da notte o in pigiama, poi dopo il passaggio dell’aereo quante imprecazioni e maledizioni!
Questo ambiente per me e i miei cugini è stato parte integrante della nostra fanciullezza, aveva per noi un fascino speciale e credo che nessuno se lo sia scordato.
Ricordo, in autunno, le castagne che sobbollivano nel tegame sulla stufa riscaldata a legna o a forme rotonde che credo fosse segatura pressata o, come mi hanno riferito, vinacce torchiate; le partite a carte che la nonna faceva con noi nipoti, le risate, l’allegria per piccole cose, molta modestia e tanto buon cuore. La nonna Ida amava la compagnia e aiutava sempre chi aveva delle difficoltà e miseria nel vivere.
La nonna Bruna era una donna non molto alta, ma ben proporzionata con dei lineamenti fini. Anche per lei la miseria non mancò, raccontava che doveva fare a turno per uscire e aspettare le sorelle che rientrassero per indossare scarpe o vestiti.
Conobbe il nonno Celso a Bologna dove lei era a servizio e lui faceva il carabiniere.
Lavorava in una trattoria e doveva portare da mangiare in una casa di tolleranza. Era una ragazzina e quando il nonno la conobbe, e lei glielo raccontò, la fece ritornare a casa e si offrì di darle lui i pochi soldi che prendeva al mese.
Quando si sposarono, nel 1911 a Castelvetro, il loro matrimonio fu festoso perché ebbero i musicanti che li seguirono per tutta la giornata.
La loro fu una vita di duro lavoro, non potendo lui più stare nel corpo dei carabinieri, essendosi sposato, lavorarono entrambi come fornaciai.
Abitavano una casa modestissima vicino alla fornace, andavano a prendere l’acqua con i secchi al pozzo, che era distante dalla casa e il gabinetto era un casotto nel cortile.
La nonna aveva un carattere schivo e silenzioso, quanto era invece chiacchierone, allegro ed estroverso il nonno.
Si sono sempre voluti bene, il nonno era pieno di rispetto per lei e dove poteva l’aiutava con molta disponibilità. Erano  discreti e poco invadenti.
La nonna, come la maggioranza delle donne sposate, fu obbligata con rammarico a donare la sua fede nuziale al duce, ne portò sempre una d’acciaio.
Stravedevano per quel figlio unico che sarebbe diventato mio padre.
Dopo un inizio come apprendista muratore, con l’aiuto del padrone della fornace, all’età di diciassette anni, lo mandarono a Modena per imparare il mestiere di meccanico tornitore, con tanti sacrifici da parte loro che cercavano di non fargli mancare niente, anche se per mio padre, ancora un ragazzo, fu molto dura.
Dormiva nell’officina assieme al cane. A quei tempi pochissimi studiavano, specialmente se figli di povera gente.
Il nonno Celso era un socialista e, siccome era tra i pochi della sua età che sapevano leggere, comprava sempre il giornale l’Avanti e spiegava agli altri le notizie, non prive di commenti belli o brutti che fossero.
Raccontava spesso le avventure di quando da carabiniere  fece mettere le manette al pretore perché non aveva rispettato la legge.
Era simpatico, allegro e molto buono.
Portava d’inverno un mantello, o tabarro, residuo di quando era militare, fumava il sigaro toscano e lo masticava; aveva imparato a fumare  quando imperversava l’epidemia della spagnola e si diceva che fosse un disinfettante.
Forse perché i vestiti che portavano le nonne erano tutti uguali, scuri e lunghi, fazzoletti legati alla nuca o sotto il mento, sembravano più vecchie della loro età, le ricordo sempre uguali anche con il passare degli anni. [...]

mercoledì 8 febbraio 2017

LE RECENSIONI DI NASCO / 3: "LA SQUILLA RAPITA"


“LA SQUILLA RAPITA”

di Lamberto da Spiniosilva (pseudonimo di Silvio Cevolani),
Mercatino di via Obici, CXXVII Fiera di San Giovanni,
Spilamberto, 24 giugno 1997.


La Maria Rosa li seguìa annotando
su un libriccino rosso di colore
i libri ch’essi andavano lanciando.
Seguiva Franceschini, il professore,
che da terra estraea, rassomigliando
un poco dei tartufi al cercatore,
le quadrate radici che poi lesto
sul nemico scagliava a lui molesto.” (Canto VIII, vv. 113-120)

Siamo nel 1996-97, l’autore tutti i giorni si recava a Bologna per lavoro. Il viaggio di andata e ritorno era interminabile e lui cercava un modo per occupare la monotonia del percorso. Un amico gli consigliò di seguire un corso di inglese. La proposta non lo attirava. Allora ebbe un lampo: la propensione per il motto di spirito, la facilità personale alla battuta umoristica, la familiarità con la storia locale e una conoscenza letteraria che comportava anche una consuetudine con il poema del Tassoni “La Secchia rapita”. Di qui l’idea di un poema, sì un poema eroicomico, legato alle conseguenze del furto della “squilla”( la campana) agli abitanti di S. Cesario da parte degli Spilambertesi, il tutto ambientato nel cuore del Medioevo.

Fu così che giorno dopo giorno l’autore riempiva il percorso Spilamberto-Bologna di ottave, cioè strofe di otto versi, tutte in endecasillabi, versi di undici sillabe.
Ma, visto che l’ideazione era tutta mentale, come trascrivere le idee immediatamente, evitando il rischio di dimenticarle? L’aiuto venne dai semafori rossi alla cui fermata Silvio trascriveva la singola ottava da lui memorizzata. Insomma, come dire, almeno uno al mondo che non imprecava al semaforo rosso.

Alla base del poema c’è, riferisce l’autore, il ritrovamento di “un curioso manoscritto in cui si narra di una contesa tra S. Cesario e Spilamberto a causa di una campana”.
L’espediente del manoscritto ha illustri precedenti; basti citare il Don Chisciotte o i Promessi Sposi, ma i “colpi di scena” e le “mirabolanti avventure” rendono singolare la lettura di quest’opera in cui la comicità surreale presenta in “uno spaccato medievale” veri personaggi della Spilamberto di oggi.

Nell’ottava citata all’inizio, troviamo che, mentre infuria uno scontro epico, compaiono: Maria Rosa, allora bibliotecaria, che svolge con scrupolo il suo lavoro; Franceschini, professore universitario di matematica, che usa le armi del suo mestiere, le radici quadrate. Per questo motivo attraverso i personaggi, la cornice medievale diventa una specie di ufficio anagrafe della Spilamberto di fine Novecento. I personaggi però non sono semplici nomi, ma sono proposti con caratteristiche che li rendono riconoscibili: o con riferimento al lavoro opportunamente medievalizzato, o elencando vizi e virtù naturalmente di dominio pubblico nel paese.

L’opera si potrebbe definire “un postmoderno spilambertese”, in quanto mescola, in modo spesso parodistico, varie tendenze letterarie tutte però riportate nell’ambito spilambertese, a testimonianza di un profondo attaccamento, stavamo per dire amore, per questo nostro paese.
Al di là del tono decisamente comico rimane da rilevare il possesso sicuro della lingua poetica: le rime sempre rigorosamente AB AB AB CC. Il verso endecasillabo viene utilizzato in tutta la sua gamma musicale, che, con notabile perizia tecnica, si spande e varia in tutto il poema.
Gli artisti spilambertesi hanno illustrato vari passaggi del testo, impreziosendolo ulteriormente. Altre meraviglie vi mostreremo nelle prossime puntate.

Eccovi l’ottava con cui inizia “La squilla rapita”:

Reggimi o Diva questo sacco aperto
nel narrar che io farò dello scenario
di sottil guerra e poi di scontro aperto
che provocato fu dal rio divario
che oppose i cittadin di Spilamberto
a quelli residenti in S. Cesario” [...].

mercoledì 1 febbraio 2017

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 41: SUL TORRIONE LA MEMORIA DEL RISORGIMENTO

(Lapide posta sul lato est del Torrione medievale di Spilamberto.)


24 giugno 1900, la piccola stazione ferroviaria di Spilamberto (ve la ricordate?) era insolitamente affollata: vari treni speciali, per di più a tariffe agevolate; comuni cittadini, personaggi politici, membri di varie associazioni, reduci dalle battaglie risorgimentali, insomma una folla si riversava a Spilamberto.
Come mai?
Ora recatevi davanti alla facciata del Torrione, quella rivolta verso la Rocca. Alzate lo sguardo e la vedete. Si tratta della lapide commemorativa in onore dei congiurati spilambertesi che nella notte del 3/4 febbraio 1831, insieme ad altri compagni di Ciro Menotti, si scontrarono a Modena con le truppe Ducali estensi.
Il sogno dell’Italia unita li portò poi al carcere o all’esilio forzato.
Le cerimonie, i discorsi, i banchetti, i rinfreschi (non mancò il sapore degli amaretti paesani!), addirittura la luce e il rimbombo dei fuochi artificiali nel Piazzale della Rocca e il loro rimbalzo dai resti delle antiche mura; quel 24 giugno 1900, celebravano l’inaugurazione della lapide commemorativa che ora state guardando.
La confusione si mescolava alla passione e insieme davano vita al ricordo di quei giovani ragazzi, dei loro progetti e ideali così profondi da spingerli a mettere in gioco la vita: si trattava di partecipare attivamente a ricostruire l’Italia unita.
Ed ora a voi: leggete quei nomi ed accoglieteli nella vostra memoria.

(Notizie tratte da:  Criseide Sassatelli, “...e il Sol dell’Avvenire brillò fugacemente”, Comune di Spilamberto 2011.)