giovedì 19 aprile 2018

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 51

Spilamberto 1918: Prigionieri in casa propria


Remo Bergonzini durante la Grande Guerra.
Remo, futuro fondatore del Gruppo Alpini di Spilamberto,
fu catturato dagli austriaci e trascorse diversi mesi in un campo di prigionia in Serbia.
Testimonianza e fotografia di Angela Bergonzini.



Un effetto inevitabile della guerra, si sa, sono i prigionieri: quelli nemici e quelli italiani in mano ai nemici. Dopo Caporetto, Spilamberto è incluso tra i territori in stato di guerra e questo comporta pesanti conseguenze per il paese.
Il 4 novembre 1918 c’è l’armistizio: la guerra è finita, ma le condizioni di vita della popolazione di Spilamberto peggiorano invece di migliorare, e questo è il paradosso; ma sorprendente ne è la causa. Dopo pochi giorni dall’armistizio un Commissario provinciale chiede quanti prigionieri nemici si possano accantonare a Spilamberto. Il Municipio risponde “I locali sono in parte occupati da truppe e prigionieri lavoratori, l’altra parte è requisita per 1800 prigionieri italiani. Nulla è disponibile”.
Questo è il secondo paradosso: prigionieri italiani in Italia. La spiegazione è amara: dopo Caporetto i prigionieri italiani caduti in mano al nemico sono visti con diffidenza e ostilità; sono considerati probabili disertori o cattivi soldati. Al loro rientro si pensa di sottoporli a interrogatorio e tra le aree prescelte per questo c’è la provincia di Modena. A Spilamberto uno dei locali indicati per l’accoglienza è l’Asilo Infantile. Il marchese Rangoni si oppone a tale scelta e scrive al sindaco:È imminente la requisizione dell’Asilo per collocarvi i prigionieri. La prego…di evitare tale iattura per tante povere famiglie che perderebbero così il vantaggio della quotidiana minestra ai loro bambini”. Il marchese si preoccupa solo del nutrimento dei bambini, non della custodia. La richiesta è accolta e in effetti vengono occupati Villa Toschi, la Filanda, il Filandino, il Teatro Comunale e un forno.
La condizione degli ex prigionieri è drammatica. L’Archivio conserva un documento del sindaco di Spilamberto che ce ne informa: “Da domenica (10 novembre) sono qui 1500 prigionieri nostri reduci (dall’) Austria, parte tubercolotici, in pessimo arnese, alcuni seminudi scarsamente e male vettovagliati, ricoverati (in) locali senza vetri, privi (di) coperte col freddo che volge…Taluni elemosinano e rubacchiano dentro e fuori paese. Impossibile impedire contatti con popolazione pericolosi. Urgono provvedimenti e tenere pulizia dai comandi militari …(in) ogni dove mucchi di immondizie perniciosi e sconvenienti”.
La convivenza tra civili e militari, raggiunta prima pur con difficoltà, fallisce in questo momento. A Spilamberto però c’è chi si è prodigato per i prigionieri. Arturo Gatti offrì alloggiamenti, trasporti di viveri e indumenti, assistenza ad ammalati, vino caldo e così via. L’anima di Spilamberto non era vinta.

[Le informazioni sono tratte da C. Cevolani, “Dal Panaro al Piave”, Istituto Enciclopedico Settecani, 2016]

mercoledì 11 aprile 2018

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 50

UN FURTO SVENTATO NELLA SPILAMBERTO ANNI ‘30.


Nell'immagine: fotografia (1935 circa) dell'allora Casa del Fascio,
attuale Museo Archeologico-Sala Consigliare;
sullo sfondo Piazza del Littorio prima della costruzione del Municipio
(da "Spilamberto in fotografie e cartoline d'epoca",
Comune di Spilamberto, 2008, a cura di M.C. Vecchi)


Anno 1934, una fredda serata invernale di fine febbraio: due uomini percorrono corso Umberto I verso il Torrione.
Il primo è il trentenne Renato Cavani: forse è passato a prendere l’amico Ernesto Rubbiani, un reduce della Grande Guerra che abita in via San Carlo; forse si stanno recando insieme in uno dei locali che sorgono in Piazza Littorio (attuale Piazza Caduti), l’osteria dei fratelli Baschieri o l’Albergo “Italia” di Zita Malmusi.
Fatto sta che, quando arrivano in fondo al portico e sbucano sulla Piazza, si accorgono, alla fioca luce dei lampioni filtrata dalla nebbia, che sta accadendo qualcosa di strano. C’è un’automobile parcheggiata, e uno sconosciuto sta frugando al suo interno: alla vista dei due uomini si allontana nascondendo qualcosa sotto la giacca, sperando di non dare nell’occhio.
Ma Renato si rende conto che qualcosa non va: ha riconosciuto l’auto – d’altra parte non ne girano molte in paese – come quella di Egidio Corsini, un pavullese che da anni vive a Spilamberto. 
«Fermati!» urla lanciandosi all’inseguimento del ladro.
In pochi passi lo raggiunge, ma mentre sta per afferrarlo quello si gira e gli lancia contro un pesante “cricco” di ferro che – si scoprirà – aveva rubato dall’auto. Con l’agilità di un gatto, il Cavani schiva il colpo e si getta sul malvivente. S’accende un furioso corpo a corpo, ma l’arrivo di Rubbiani permette di immobilizzare il ladro, che viene subito condotto presso la stazione dei Carabinieri nella vicina Cuntrèda dla Prèda. Qui l’arrestato viene identificato come un noto pregiudicato residente a Castelnuovo, che nella stessa serata aveva messo a segno un altro colpo ai danni di un’altra automobile incustodita.
L’avventura finisce lì, ma ha uno strascico che oggi potrebbe lasciarci sorpresi. Qualche giorno dopo, infatti, le autorità del Comune, invocando il Regio Decreto 1168 dell’aprile 1851, si rivolgono al Ministero dell’Interno chiedendo di assegnare una ricompensa al Cavani “per aver agito con prontezza e decisione, non curando il pericolo di rimanere colpito dal cricco di ferro lanciatogli contro dal fuggitivo e per essere riuscito in tal modo ad impedire altri furti e ad assicurare alla giustizia il pericoloso pregiudicato”.

[La descrizione dell’evento e le informazioni sui suoi protagonisti sono tratte da documenti conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Spilamberto]

mercoledì 4 aprile 2018

POLVERE D’ARCHIVIO, POLVERE DA SPARO / 1

Visita alla polveriera di Spilamberto nel 1769


(Mappa conservata presso l’Archivio di Stato di Modena)



Ci fa da guida un inventario dell’epoca.
A sinistra della strada maestra che da Spilamberto conduce a Vignola s’incontra un viottolo che guida ad un grande portone di pioppo a due ante, sostenuto da pilastri di mattoni con quattro cardini e chiuso da un catenaccio di ferro: inizia qui la proprietà della Serenissima Ducale Camera. All’interno della zona recintata si trovano 5 fabbriche: il “pistrino” San Pellegrino, una casa ad uso digranitora” e magazzino, il “pistrino” Sant’Anna e due caselle per gli operai. Il recinto è formato a nord da una siepe viva di circa 15 metri e per il resto dal canale, a ovest e sud pure da una siepe viva e ad est dal nuovo canale per il “pistrino” San Pellegrino, realizzato nell’anno corrente 1769.

PISTRINO S. PELLEGRINO fabbricato nell’anno corrente 1769 (indicato A nella mappa)
L’edificio ha forma rettangolare e misura circa 7x5 metri. Sulla facciata nord, sopra la porta e l’unica finestra, si legge a grossi caratteri rossi il nome “San Pellegrino”; sempre sulla facciata si apre un pozzo per l’appoggio del “fuso” (l’albero motore) che trasmette il moto dal canale ai macchinari.
Esternamente la fabbrica è alta meno di 4 metri, ma all’interno risulta più ampia in quanto in parte seminterrata; vi si accede infatti scendendo una scala di pietra di sette gradini. Altre due finestre si aprono sulle pareti est e sud.

PISTRINO S. ANNA fabbricato nell’anno 1763 (indicato D nella mappa).
Il “pistrino” si è incendiato varie volte ed è stato ricostruito da Taddeo Savani. Sulla facciata si legge il nome “S. Anna”; sulla parete sud si trova un pozzo per l’appoggio all’asse del “fuso” (l’albero motore) dell’edificio, continuamente azionato da un piccolo acquedotto che scorre sottoterra verso il basso da sud verso nord.
La fabbrica ha la forma di un quadrato di circa 5 metri per lato.

CASELLA PER GLI OPERAI DEL PISTRINO S. PELLEGRINO (indicato C nella mappa).
La casella è di fabbricazione nuova (1769) e ha il suo ingresso a nord, mediante una porta di pioppo chiusa da una serratura. Sulla parete orientale si trova un camino rustico con un piccolo focolare.
L’altezza dell’edificio è alla sommità pari a oltre 3 metri.

CASELLA PER GLI OPERAI DEL PISTRINO S. ANNA (indicata E ella mappa).
Fabbricata nel 1763, questa casella, di forma pressoché quadrata, presenta sulla parete nord la porta di ingresso, una finestra e un piccolo finestrino; l’unica altra finestra si trova sul lato meridionale. È più bassa rispetto agli altri edifici, non raggiungendo i 3 metri alla sommità.

GRANITORA” (indicata B nella mappa).
La “granitora” è il luogo in cui la polvere, ancora nella forma di un impasto umido, viene ridotta in grani. Questa fabbrica fu costruita nel 1763 e serve entrambi i “pistrini”. Quando era presente il solo “pistrino” detto di Sant’Anna, consisteva in una camera a pianterreno e altra superiore con portico a mezzogiorno. Dopo l’erezione del “pistrino” di S. Pellegrino nel 1769, la “granitora” è stata ampliata costruendo un secondo locale ad uso magazzino di carbone.
All’angolo nord della facciata occidentale della fabbrica si trova una scala che conduce al secondo piano, parte in mattoni parte in legno di rovere e coperta da un tetto sostenuto da due travicelli perpendicolari.
L’edificio è alto circa 6 metri, lungo 8 e largo 6; il portico è lungo oltre 6 metri e largo circa 3.

Nel loro complesso, gli edifici e i capitali sono valutati circa 1.300 lire modenesi.

Nella mappa è inoltre indicato con F un ponte provvisorio, con G il canale S. Pietro, con H il canale derivato dal S. Pietro che porta l’acqua al “pistrino” S. Pellegrino. Si possono poi notare la “carrata” (carreggiata) che dalla Vignolese conduce al “pistrino” e l’indicazione dei proprietari confinanti: a est e ad ovest Bonetti, a nord Pasqualini.

In una prossima caramella la visita proseguirà dentro gli edifici.

giovedì 29 marzo 2018

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 7

IL BRODO


(Anno 1978. Sullo sfondo, centralmente, la facciata principale dell’Osteria di “Zighìna”
- il retro era prospiciente via Obici-; sulla sinistra la parete meridionale del vecchio
“Cinema Farini”. Gli edifici si trovavano sul lato orientale di via San Giovanni,
dove ora si possono individuare la “Galleria Ossimoro”, la pizzeria “Ti Stuzzico”
e l’enoteca “La gàbia dal vèin”. Fotografia da raccolta privata.)


Il brodo si “mette su”.
È questa l’espressione più caratteristica per indicare la sua preparazione.
Il tipo di carne, la varietà degli aromi, la qualità dell’acqua e il suo rapporto con la quantità di carne sono condizioni che concorrono per il sapore di questo alimento.
Il suo profumo, da sempre, ricorda la domenica poiché una volta faceva parte del pranzo del giorno festivo; la carne, che si mangiava raramente, serviva come secondo.
Il brodo è il risultato della bollitura della carne. Si immerge la carne in acqua fredda se si vuole ottenere un buon brodo, in acqua calda se si vuole ottenere la carne più saporita. Per ottenere al meglio il brodo, i tagli di carne che io preferisco mettere in pentola sono: guanciale di manzo, un piccolo pezzetto di coda e di lingua, un po’ di doppione, un pezzetto di copertina morbida e gelatinosa (ottima da mangiare), un quarto di cappone e un osso di zampa di vitello; una cipolla intera con la buccia, una carota e un pezzetto di sedano, sono quasi indispensabili per dare un po’ di aromaticità, e, infine, si aggiunge il sale grosso.
Il brodo deve arrivare a ebollizione molto lentamente, occorre togliere le impurità con un ramaiolo e deve continuare a sobbollire per almeno tre ore, coperto. 
Ogni famiglia prepara il brodo a modo suo, con tagli di carne e quantitativi che soddisfano il proprio gusto; il profumo del brodo sarà sempre riconoscibile, cambierà il sapore. 
Abitavo in via Obici quando, la domenica mattina, nonna Faustina faceva scendere dal secondo piano, dove lei viveva, una lunga corda con attaccato un pentolino in alluminio, munito di coperchio, una sorta di gavetta. All’interno vi era un soldo e io le andavo a comprare un po’ di brodo all’Osteria da Zighìna, situata in fondo alla via. Era Tilde che riempiva il pentolino di brodo profumatissimo, giallo come l’oro e ancora bollente. Consegnato il brodo ricevevo 5 o 10 lire di mancia; quei pochi soldi erano sufficienti per andarmi a comperare un gelato dalla “Nina”.
Nonna Faustina aveva allevato mia madre e mio zio, tutti la chiamavano nonna, ma nella realtà non lo era di nessuno. Non le ho mai visto i capelli, il suo capo era sempre coperto da un fazzoletto nero, questo era l’unico colore che lei usava per i suoi vestiti e grembiuli. Il suo volto era particolarissimo, per il colore e i lineamenti, mi ha sempre ricordato il volto di una zingara. Di casa sua non ricordo quasi nulla, il tavolo in legno della cucina e l’odore, non buono. Vi andavo raramente, venivo invitata solamente per ricevere un pezzetto di cioccolato svizzero, quando sua figlia Antenisca, che risiedeva in quella nazione, veniva a farle visita. Mai avrei pensato che, un giorno, quel pezzetto di cioccolato tanto ambito sarebbe stato così a portata di mano!
La domenica, dopo la messa  delle  nove, passavo a salutare le zie e la nonna.
Nonna Iside e zia Bina avevano già “messo su” il brodo, ed era annunciato dall’intenso profumo che saliva per la scala. Entrambe  conservavano per me una prelibatezza, i tuorli delle uova. Spesso, quando si comprava la gallina per il brodo all’interno vi erano dei grovigli di piccole sfere gialle: tuorli saporitissimi che se il volatile non fosse finito in pentola sarebbero diventate le comuni uova con il guscio. Venivano messe nell’acqua insieme alla carne e tolte appena cotte; acquistavano un sapore unico, ricco, con una consistenza morbida e farinosa. Io le gustavo semplicemente così ed erano sempre straordinarie. Ora le vendono sfuse, sono più grandi, le ho provate, ma non hanno più lo stesso sapore e la stessa consistenza!
Preferisco pensare che quelle sensazioni di gradevolezza fossero dovute alla mancanza di cibi veramente prelibati e che faceva apparire ottime anche le vivande più semplici, ma so che non è così, so che tutto sta cambiando e molti sapori si sono persi, rimasti vivi solo nella memoria.

giovedì 22 marzo 2018

PAGINE DI DIARIO / 25

Da “Per piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.



(Ecco i “giardinetti” ai quali accenna Franca nel suo diario.
Fotografia scattata da Paola Forghieri prima della ristrutturazione
dell’apparato architettonico del “Piazzale della Rocca”.)




Parte undicesima


[…] Quattro o cinque anni dopo la guerra, erano stati costruiti  nel Piazzale due piccoli giardinetti, con cinque o sei alberi per parte, e due panchine, sempre per parte.
Due di queste panchine erano una di fronte all’altra, ma divise dal tratto di strada che dalla Piazza portava all’ingresso principale della Rocca, le altre due erano una su via Monache e l’altra su via Obici.
Dopo cena noi ragazze eravamo le prime ad uscire di casa per occupare una delle panchine che si fronteggiavano, perché da quella posizione si vedeva tutta la Piazza, poi all’arrivo delle persone adulte ci alzavamo per andare a spasso, e se faceva freddo si andava al cinema: verso i diciott’anni incominciai ad andare a ballare.
In paese non c’era una sala da ballo invernale, così quando era possibile si andava nei paesi vicini; ma spostarsi era ancora difficile. Erano ancora pochi quelli che erano riusciti a comprarsi un’auto;
qualcuno più fortunato aveva una vespa o una lambretta e chi aveva una moto di solito era un meccanico. I ragazzi, quando ne avevano la possibilità, la macchina la prendevano a noleggio.
In paese c’era una sala da ballo ma era solo estiva e anche bruttina, ma era meglio di niente: quando si è giovani basta poco per divertirsi.
Sembrava che la gioia di vivere uscisse da ogni poro, tanto era incontenibile. Quando camminavo avevo una sensazione strana, come se il corpo non avesse peso: mi sembrava di non toccare la terra.
Questo, penso, fosse normale a quell’età per tutti i ragazzi, ma non ho mai fatto indagini, specie con le amiche; temevo che mi dicessero che ero un po’ esaltata.
Beh, devo confessare che tanto normale non ero.
Mi viene in mente che, quando avevo circa quindici anni, un pomeriggio ci fu il funerale di un ragazzo morto in un incidente. Sembrava che dentro e fuori dalla chiesa ci fosse tutto il paese. Tutti commossi e piangenti. Nel vedere tutta quella commozione, ho pensato:«Mi piacerebbe morire anch’io!».
E immaginavo tutte quelle persone che dicevano:«Oh! povera Franca! una creatura così buona e brava! Non meritava un così infame e crudele destino!».
Invece di pensare a quel povero ragazzo, ero tutta commossa su me stessa: ero proprio scema!
Devo dire che ho avuto il buon senso di non farmi più venire di questi funesti pensieri.
Io credo che il pensare che tutte quelle persone commosse per la mia dipartita fosse come se mi avessero detto che mi volevano bene... continuavo a portarmi addosso un grande bisogno di essere amata, e volevo disperatamente sentirmelo dire! […]

venerdì 16 marzo 2018

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 49

Indovinelli spilambertesi, di Annarita Bianchini.



4) Chi la zérca, chi la ciàpa,
     e chi-g-pàsa sol ed cô!

5) Operaie specializzate
    là trovavano il suo capo
    e tirando per il filo
    ti lasciavan’ nudo il baco…

6) Fu donata dal gran fiume,
    al miracolo si disse!
    Voglio io saper il nome
    e di casa dove sta.

7) Anni or sono era un ritrovo
    per la donna e la massaia:
    ora giace in abbandono
    perché ognuno lo fa in casa.

8) Sono in quattro, un po’ boriose,
    sol da noi sono famose!

giovedì 8 marzo 2018

IL VECCHIO COMUNE SI RACCONTA / 6

Quel prezioso filo sottile



(Parte residua dell’antico portico del “Pavaglione” o “Pavaione”,
oggi comunemente detto “Portico di Bondi”.)


31 maggio 1578

L’istituzione del “Pavaione dei filugelli”, mercato dove vendere i bozzoli del baco da seta, fu di grande importanza per Spilamberto in quella fine di maggio 1578, ma nascondeva un piccolo mistero, forse un raggiro?
Con il consenso dei Marchesi si decise che il luogo deputato alla vendita sarebbe stato il portico del loro “Vecchio Palazzo”, prospiciente il lato sud della chiesa di San Giovanni Battista, le cui arcate si allungavano verso l’incrocio tra le due chiese, per terminare con una “Colonna rossa”.

Suscitò certo stupore quell’anno, nei primi giorni di giugno, quando quelle arcate furono liberate dai soliti depositi di legname, mentre i cavalli, che lì si abbeveravano, venivano allontanati provvisoriamente. Ormai le nuove sale della Rocca avevano oscurato la ricchezza delle stanze e l’eleganza degli arredi di quella prima residenza feudale.
Con la decisione di istituire il “Pavaglione” si rispondeva al problema delle grida, dei bisticci, delle arrabbiature dei venditori dei “follicelli”, i detti bozzoli, causati dagli errori e dalle frodi che si verificavano soprattutto a causa di persone, si diceva, “che non sapevano e non conoscevano il fatto loro”. Servivano incaricati istruiti ed affidabili. Si nominarono due responsabili delle pesature, dei prezzi di vendita e d’acquisto: Giacomo Zavarisi e Galeazzo Rachello (quest’ultimo facente parte del “Consiglio della Comunità”). La creazione del “Pavaione dei filugelli” permise di vendere i bozzoli senza imbrogli. Inoltre avrebbe in seguito fornito la materia prima per produrre a Spilamberto quella seta che sarà manipolata per secoli dalle “piccole mani” di tante bambine e donne spilambertesi, in quella filanda che la marchesa Bianca Rangoni volle impiantare con tecnologie avanzate alcuni decenni dopo, nel 1610.

Veniamo ora al piccolo mistero. La decisione di cui abbiamo riferito viene presa dai Consiglieri nella “solita Camera delle riunioni”; ma a una deliberazione così importante e urgente non è presente il Commissario del “Castello” di Spilamberto. Come mai? Era rimasto a godersi il tepore del letto (i Consiglieri affermavano “di non averlo voluto scomodare”) in quella tiepida primavera? oppure il fatto nascondeva motivazioni politiche più consistenti? I documenti non lo rivelano.

In ogni caso il tutto avvenne alla fine di maggio di quel 1578, e nelle successive sedute del 1° e 4 giugno; la decisione fu presa dal “Consiglio della Comunità”, con l’approvazione dei suoi “Signori”.
Ecco i presenti alle sedute (un’occasione per gli attuali spilambertesi di ricercare i nomi dei propri antenati):
Baldassarre Corradino, massaro;
Alfonso Fontana;
Pietro Giovanni Frarino;
Galeazzo Rachello;
Bernardo Scaiola;
Agostino Bartolazzi.