mercoledì 18 luglio 2018

PAGINE DI DIARIO / 27

Da “Per piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.

(Anno 1959 – Franca Santunione con la mamma Giovanna Gagliardelli –
sullo sfondo i vecchi giardinetti del Piazzale davanti alla Rocca di Spilamberto.)


Parte dodicesima

[...] Ho incominciato  a fare i conti con la realtà quando mi sono innamorata la prima volta.
Questo accadde nel 1955. Io avevo 19 anni e lui 22. Credo che fosse aprile o maggio… comunque era primavera.
La prima volta che lo vidi era seduto insieme ad altri tre ragazzi sul muretto del giardino della vecchia scuola elementare. Si trovavano lì perché avevano un appuntamento con delle mie amiche [...] venni presentata [...] dopo un po’ li salutai per andarmene via. Il ragazzo che più mi aveva colpita, mi disse: «Perché te ne vai?».
Risposi che andavo al cinema perché era in programma un film che m’interessava vedere.
«Il film puoi vederlo anche un altro giorno. Per questa sera rimani con noi!».
In quel momento un altro ragazzo disse:
«Perché non andiamo a Vignola a prendere un caffè?».
[...] tutti furono d’accordo.
Il ragazzo che mi aveva chiesto di restare si chiamava Marco. Ero ancora indecisa su cosa fare quando Marco mi prese la mano e mi portò  verso due auto parcheggiate poco distante. Marco aprì lo sportello di una di queste e mi invitò  a salire ed a sedere nei posti dietro; lui fece  il giro dell’auto e si sedette al mio fianco, uno degli altri ragazzi salì  al posto di guida . (Più tardi venni a sapere che la macchina era di Marco). [...] eravamo a metà strada quando improvvisamente Marco mi baciò. Rimasi sorpresa e sconcertata. Cercai di respingerlo, ma senza fare della confusione perché non volevo che gli altri capissero cosa stava succedendo visto che avevo capito, da come mi  avevano  parlato poco prima, che alla mia amica seduta sul sedile davanti piaceva Marco. [...]
Mi piace pensare che a portare Marco sulla mia strada sia stato il mio Angelo Custode. Credo che abbia voluto parcheggiarmi in questa storia mentre mi stava cercando per tutta l’Italia l’uomo che avevo sempre sognato. Potevo, è vero, aspettarlo senza frequentare nessun ragazzo, ma c’era anche il rischio che andassi ad infilarmi in una storia dove non era più possibile uscirne.
Perché dico questo?
Perché la mia storia con Marco non poteva avere nessun futuro.
Questo non potevo saperlo; almeno all’inizio, perciò fu una storia d’amore com’è naturale che sia tra due ragazzi ... una storia con le sue gioie, ma anche una storia sofferta.
Questo fu il mio primo colpo di fulmine.
Marco era un bel ragazzo, simpatico, di modi signorili e tanta voglia di divertirsi. D’altra parte non poteva che essere così. Apparteneva anche a quel ceto sociale che ho descritto con la puzza sotto il naso. Questo però non gli impediva di essere socievole con tutti. In poche parole, non si dava delle arie. (Devo confessare che quelli con la puzza sotto il naso non mi erano più tanto antipatici.)
Tutto andò bene per circa un anno e mezzo, poi il mio stato d’animo cambiò... incominciarono le sofferenze. Venni a sapere che nelle sere che non ci vedevamo caricava i suoi amici in macchina (era uno dei pochi che in quegli anni l’aveva) e andavano a fare i bulletti per i vari paesi dell’Emilia. A Marco piaceva molto ballare [...]. Questo mi faceva stare male, ma non gli ho mai detto che ne ero a conoscenza. Questa sofferenza mi aiutò a prendere coscienza della mia storia con Marco. Tutte le volte che ci pensavo molto seriamente finivo col dirmi che non aveva nessun futuro. Questo per due ragioni (ne sarebbe bastata anche una sola).
Una di queste era la sua famiglia. [...] Sapevo che il padre era dottore e aveva una sua attività (aveva una farmacia). Avevano anche la donna di servizio.
Basta questo a far capire come fossimo distanti come ambiente famigliare. Questo in quegli anni aveva ancora molta importanza. Poi c’era la mia famiglia; soprattutto mio padre che col passare degli anni era peggiorato: ora bastava poco per essere ubriaco e sempre più litigioso fuori e dentro casa. Poi c’ero io senz’arte né parte, e naturalmente sempre povera, così mi attaccavo all’orgoglio dicendomi che in un ambiente tanto diverso dal mio mi sarei sempre sentita una povera cenerentola.
Temevo molto che  i suoi genitori, come moglie del figlio, mi avrebbero accettato con pochissimo entusiasmo, così che lottavo disperatamente con la ragione e il sentimento. Finiva sempre per vincere quest’ultimo.
Mi viene in mente quella frase che dice: “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce”.
Difatti ne sono uscita solo quando il Signore, o chi per esso, mi è venuto in aiuto.
Oh, non è che non ci provassi, mi facevo tutti i miei bravi ragionamenti; preparavo ciò che dovevo dirgli, ma poi quando era lì davanti a me diventavo completamente smemorata. [...] sapevo che dovevo arrivare a chiudere questa storia.
Anche mia madre aveva capito che qualcosa mi tormentava: aveva capito anche da cosa dipendeva perché una sera mi chiese se Marco era il ragazzo che sognavo da ragazzina. Ci pensai un attimo, poi risposi di no. Allora disse: «A parte il fatto che quel ragazzo solo un miracolo poteva fartelo incontrare!... ma se pensi che Marco non sia la persona giusta per te, lascialo, prima che sia troppo tardi!». Non mi chiese la ragione di questo mio pensiero, e ne fui contenta. Come avrei potuto dirle che solo l’idea di conoscere i suoi genitori mi spaventava e che lo era ancora di più il pensiero  che un giorno avrei dovuto presentargli mio padre. Era tanta la vergogna che non avevo mai parlato a Marco di mio padre.
La mia famiglia l’avevo tenuta fuori dalla nostra storia. Conosceva mia madre solo perché a volte si erano incontrati per caso, e tra di loro c’era un semplice saluto di circostanza. Con mio padre avevo fatto in modo che non s’incontrassero mai. Questo non fu difficile perché niente in quelle ore lo faceva uscire dal suo regno, cioè l’osteria, ma per maggior sicurezza, se il tempo lo permetteva, l’aspettavo nel piazzale, e lì ci salutavamo quando se ne andava.
Diedi retta a mia madre. Incominciai ad uscire con le amiche quando Marco non veniva. Si andava a passeggiare o al cinema e a volte anche a ballare: questo nella speranza di conoscere un ragazzo che mi piacesse almeno un po’. Niente da fare! Non ce ne era uno che andasse bene. Se poi qualcuno insisteva nel corteggiarmi finiva solo per infastidirmi: credevo che non ce l’avrei mai fatta a togliermelo dalla testa e dal cuore. Invece, questa storia finì... No, non era finita la storia perché questa si trascinò per un po’ di tempo; era finito solo il sentimento che provavo per Marco, e strano a dirsi, improvvisamente com’era cominciato finì e cosa ancora più strana, nello stesso posto! [...]
Questo fatto accadde la prima domenica di giugno del 1958. Quella fu una giornata strana ... Come tutte le domeniche, io e mia madre ci dividevamo i lavori di casa che durante la settimana non eravamo riuscite a fare in quanto lavoravamo entrambe. Tutto andò bene fin verso le dieci, poi incominciai a sentirmi strana; non riuscivo a combinare niente, così che mia madre mi chiese se stavo male? Dissi di no, ma non riuscivo a capire perché fossi tanto agitata![...]
Quella sera avevo, alle 21, un appuntamento con Marco, ma alle venti mi prese una gran voglia d’uscire di casa; questa non era una novità, perché di solito l’aspettavo nel piazzale, ma quella sera sentivo il bisogno di muovermi e stare da sola, nella speranza che questo mi calmasse un po’. Resistetti fin verso le 20,30, poi dissi a mia madre: «Io esco, e se dovesse venire a cercarmi Marco, digli  che sono uscita e non sai dove sono andata, ma che sarò nel piazzale alle nove, o giù di lì».
Mia madre, che in quel momento stava leggendo, alzò la testa, mi guardò da sopra gli occhiali e con una esclamazione disse: «Cosa?... No, no no! Io non voglio assolutamente sapere niente delle tue stupidaggini!!! inoltre io ora  esco, e vado a trovare la mia amica Bruna».
(Veramente mia madre non disse stupidaggini, ma in dialetto usò un termine più colorito).
Senza perdere tempo, si preparò  e se ne andò. Io tentennai un po’, poi uscii.
Nel piazzale trovai le solite amiche; mi fermai giusto il tempo per salutarle, poi me ne andai. Camminando feci tutto il perimetro della parte vecchia del paese, finché mi ritrovai dietro la vecchia scuola elementare col famoso muretto dov’era seduto Marco la prima volta che l’ho visto.
Dall’altra parte della strada, proprio di fronte, c’era la sala da ballo (quella bruttina).
Sentendo l’orchestra suonare, mi prese una gran voglia d’entrare, ma avevo un problema, non avevo con me neanche una lira... Mentre pensavo come potevo fare, vidi  un ragazzo che lavorava nella mia stessa ditta, così gli sono andata a chiedere se mi prestava qualche soldo per entrare.  Me li prestò ed entrai. Mentre facevo questo pensavo di rimanere dentro solo pochi minuti per poi andare all’appuntamento con Marco. Benché avessero aperto da pochi minuti, il locale era già molto affollato. Appena entrai  vidi  una mia amica vicina alla pista da ballo; le andai vicino, la salutai, lei mi guardò e mi dice: «Beh! cosa fai qui?».
«Non lo so», risposi. (Non mi andava di dare delle spiegazioni).
Le chiesi come mai era lì. Rispose che era arrivata da pochi minuti e che non c’erano più tavoli liberi e che stava lì nella speranza di vedere se qualche amica stava ballando,  sperando che avesse un tavolino per ospitarla. Finì un ballo, ne finì un altro, ma di amiche non se ne vedeva una.
Su un lato della pista c’erano degli alberi e sotto a questi i tavolini. La mia amica si attaccò a un grosso ramo e si sollevò un po’, per vedere se qualche amica  fosse  seduta da qualche parte, quando mi disse: «Vedo seduti a un tavolino là in fondo dei ragazzi che conosco! Andiamo a sentire se ci ospitano!».
Le chiesi  se erano ragazzi del paese e lei mi disse di no: disse che li aveva conosciuti un paio di giorni prima nel bar di sua zia [...]. Le chiesi cos’erano venuti a fare a Spilamberto, «Per cercare il petrolio» rispose. La cosa mi sembrò molto strana. Comunque le dissi: «Se vuoi andare, vacci, io non vengo perché mi vergogno». [...] Senza pensarci due volte lei andò  da quei ragazzi che furono contenti di ospitarla, anzi, le chiesero se aveva altre amiche. Disse che c’ero io, ma che non ero andata insieme a lei perché mi vergognavo. Nel frattempo ero rimasta vicino alla pista sperando di vedere almeno un’amica per salutarla e per poi uscire.
Proprio in quel momento sentii dietro di me una voce maschile che diceva: «Signorina buona sera».
Mi girai e mi trovai davanti un bel ragazzo. [...]

giovedì 12 luglio 2018

IL VECCHIO COMUNE SI RACCONTA / 8

Dalle fatiche delle corvées i nomi dei nostri antenati

Seconda puntata



(Scorcio di uno degli ambienti dell’Archivio Storico Comunale di Spilamberto,
quando ancora era collocato nel Municipio locale
e non aveva subito il trasferimento a Vignola.)


Ci ricolleghiamo al documento datato 25 aprile 1616 (“Caramella” pubblicata il 9/05/2018) per offrire ai nostri lettori altri nomi tratti dall’elenco dei “Capi famiglia” residenti nel “Castello di Spilamberto e nella sua Giurisdizione”, o che in essi possedevano beni immobili.
L’interessante documento è conservato nell’Archivio Storico Comunale di Spilamberto e ci offre la possibilità di rintracciare non soltanto le origini di tradizioni e regole di vita quotidiana e pubblica, ma anche le “radici” dei cognomi attuali. Sono risposte a curiosità che spesso vengono raccolte nei “cassetti della dimenticanza”, oscurate dalle molte attrattive del mondo odierno. Noi, invece, abbiamo il piacere, pubblicando la presente “Rubrica”, di offrire la possibilità di scoprire ciò che del passato raccolgono i vostri cognomi.

Ecco altri 42 cognomi che seguono i 40 precedentemente pubblicati:

[...] 41-Baldiserra Besso?   42 -Bartolomeo Simonini   43-Antonio Montagnani  44-Jacomo (“Giacomo”) Greghino  45-Jacomo (“Giacomo”) Sola  46-Battista Ferrari  47-Pietro Berri  48-Guido Gaiani  49-Mattheo Thodeschino (“Matteo Tedeschini”)  50-Benedetto Cavalotti  51-Rinaldo Berselli  52- Giovanni Maria Cavana (“Cavani”)  53-Pellegrino Vinio  54-Francesco Bersello (“Berselli”)  55-Domenico Bersello (“Berselli”)  56-Gherardo Cambio (“Cambi”?)  57-Francesco Caretta (“Carretta”?)  58-Battista Solmo (“Solmi”)  59-Jacomo (“Giacomo”) Martini  60-Bernardino Scachetti (“Scacchetti”)  61-Simono (“Simone”) Caldini  62-Geminiano Grande (“Grandi”)  63-Pitro Baldini  64-Antonio Ferrari  65-Marchino Chioldi (“Chiodi”?)  66-Vergilio (“Virgilio”) Barabochi  67-Gerolamo Ferrari  68-Giovanni Giovetta (“Giovetti”)  69-Sabbadino de Sabadini (“Sabatini”)  70-Giovanni Gallo (“Galli”)  71-Francesco Sacchi  72-Nicolò Sacchi  73-Giovanni Grande (“Grandi”)  74-Bartolomeo Barano (“Barani”)  75-Giovanni Ludovico Quartiero (“Quartieri”)  76-Pietro Parmesano (“Parmeggiani”)  77-Domenico de Grandi  78-Stefano Vignale (“Vignali”)  79-Nicolò Balugani  80-Alessio Martinelli  81-Gerolamo Bellentani  82-Leonardo Cresthoni (“Cristoni”?)  83-Salvador (“Salvatore”) Cavalotto (“Cavalotti”) [...]

Arrivederci al prossimo ed ultimo elenco dei “Capi famiglia”!

giovedì 5 luglio 2018

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 6

Un “Cof” dalla Nina


(Immagine tratta da cartolina di “saluti da Spilamberto”, anno 1965.
La latteria/bar “Nina”, sulla destra, nel prospetto sud dello “Stallone".
Raccolta privata )


La mia percezione di quando ho dato il primo morso a un Magnum, gelato ricoperto, è stata di una copertura croccante che si scioglieva lentamente in una scia vellutata dando spazio a una saporita cremosità rinfrescante. Arrivata all’ultimo pezzetto di gelato ho morso il bastoncino e l’ho fatto scorrere fra i denti per non lasciarne nessuna traccia.
È stata quell’azione banale e spontanea che ha fatto riemergere il ricordo del “Cof”, nome, e prodotto caduto in disuso, dell’attuale ghiacciolo. Il mio preferito era alla menta. Abitando in Via Obici dovevo solamente svoltare l’angolo per arrivare al negozio della Nina, una latteria.
Un negozietto piccolo, un banco in vetro e dietro lei, piccola, minuta e vispa.
Sul banco, da parte, quasi sempre vi erano degli enormi “spumini”, nome effettivo meringhe. Il profumo dominante era di latte, quello che si sente dal casaro quando inizia a scaldarlo per fare il parmigiano.
«Un Cof alla menta», chiedevo. Non lo gustavo tanto, non vedevo l’ora di finirlo perché potevo essere fortunata; se sul bastoncino era scritto “premio” potevo averne un altro gratis, se non avevo quella fortuna lo tornavo a mettere in bocca, mordendo e succhiando il bastoncino, cercando di estrarre fino all’ultimo tutta l’essenza della menta.
Nina la conoscevano tutti, consegnava a domicilio il latte; ogni mattina la sentivi arrivare con la sua rumorosa motoretta, lasciava la bottiglia del latte davanti alla porta e ripartiva. Mi sono sempre chiesta se anche la sua persona avesse quel buon profumo di latte. “Cof” sta per: Cavazzoni Orlando e Fratello, ditta che dal 1952 al 1991, a Lido di Casalecchio, ha prodotto questo ghiacciolo.
Io ora il ghiacciolo non lo mangio più, non assomiglia minimamente a quello dei miei ricordi. La caratteristica del “Cof” consisteva nell’ingrediente principale; il suo sapore e la sua consistenza non troppo ghiacciata stava nell’utilizzare gli sciroppi alla frutta dell’azienda Fabbri, ricchi di frutta e zucchero che lo rendevano più saporito e morbido.
Ora abbiamo la possibilità di creare, a casa nostra, quasi tutti i prodotti dell’artigianato e industria alimentare. La “mia gelatiera” funziona ormai da più di vent’anni. All’inizio i gelati li preparavo con semplici ingredienti, poi, per migliorare la cremosità e consistenza, ho iniziato a utilizzare dextrosio, glucosio, farina di carrube. Per variare preparo i crì-crì, un cono con gelato e una croccante copertura di cioccolato fondente.  Quando ho visto il set per preparare il gelato sullo stecco non ho resistito, l’ho comprato. Il set è dotato di quattro stampi in silicone e un centinaio di bastoncini: riempio lo stampo con il gelato alla panna o alla nocciola, inserisco il bastoncino nell’apposito foro e metto in congelatore a meno 18° per un giorno. Per otto gelati occorre sciogliere almeno 500 gr. di cioccolato da copertura a 45°. Aggiungo 25 gr. di olio di vinaccioli e porto la temperatura a  30°. Metto il cioccolato fuso in un contenitore stretto e alto e lo mantengo in un bagnomaria caldo. Molto rapidamente immergo il “mio Magnum” nel cioccolato!
Conservo quanto ho realizzato su di un vassoio in congelatore.
Inutile dire che il mio gelato sullo stecco è diverso da quelli prodotti dall’industria e molto più gradito.

mercoledì 27 giugno 2018

ROCCA DELLE MIE BRAME / 25

Le smanie per la villeggiatura



(Torre orientale della Rocca prospiciente il “zardinum”,
ove era collocata l’antica “Sala del Belvedere”.)


Bauli fatti e disfatti, servi indaffarati, nervosismi sbuffanti, carri stipati di mobilie, sicuramente una spazzola, un corsetto, un gioiello dimenticati, rumore di carrozze e finalmente l’arrivo in Rocca.
L’antico “vago” Palazzo, tornato ai Rangoni nel 1812, conservava ancora, passata l’ondata napoleonica, l’eco delle settecentesche e goldoniane “smanie per la villeggiatura”.
Spilamberto, ricca della nota “aria salubre” e della distinta accoglienza dei suoi “Signori”, anche se in tono minore continuava ad accogliere ospiti.
Come in altre regioni, i nobili avevano da tempo rivalutato l’ambiente agricolo per i possibili agi che offrivano le “Ville”, arricchite e ristrutturate. E la Rocca, che non era più la costante residenza dei nobili proprietari, tuttavia continuava ad offrire possibilità di piacevoli e rigeneranti soggiorni.
Tempi prolungati per gli ospiti, accolti negli svaghi; l’antica “Sala del belvedere”, nell’orientale Torre centrale, arredata con numerosi tavoli da gioco, ormai fulcro della “Villeggiatura”; una campanella all’esterno per chiamare ai pranzi ed alle cene dopo passeggiate ed approcci chiacchieraticci nel “zardinum”, nel parco alberato, ricco di piante da frutto, di prati, di fiori, raccolti da geometriche siepi; salici, pioppi. Ma qualcuno si tratteneva ancora nel camminamento esterno di quella “Sala” così frequentata: le acque del Panaro, pur se lontane, cullavano approcci amorosi che non si volevano interrompere.
Le linee architettoniche e l’infilata di stanze che nel Settecento avevano già accolto tanti personaggi, spesso importanti, non mostravano novità; soltanto interventi murari di mantenimento, rifacimento di intonaci colorati per suggestioni prospettiche; “camerini”, percorsi da servitori, collegavano quegli ambienti che esigevano un po’ di riservatezza. Un’ospitale dignità occorreva ancora.
È la quieta agonia di un mondo feudale che ancora sussulta nonostante gli attacchi delle nuove idee di libertà ed uguaglianza. Un’eredità di gesti, di usi, di linguaggi che stenta a morire.
Poco tempo ancora e uno strappo definitivo avrebbe spezzato la continuità con il secolare passato.

giovedì 21 giugno 2018

SPILAMBERTESI DA RICORDARE / 9

Augusta Cantaroni



Lavava i panni nel fosso, dietro la Rocca. Era una bella mattina dell’aprile 1945, ma l’Augusta, china sull’acqua, pensava solo a quell’urlo nero che le rimaneva in gola dal 12 febbraio dell’anno prima.
Profumo di viole e di crescione, cinguettio di passeri e lo sciacquio del torrente; un rumore diverso ruppe l’idillio: il pianto sommesso di un ragazzo dietro la siepe del biancospino. L’Augusta incinta si alzò con fatica, scostò le fronde, fino a scoprire un ragazzetto biondo che piangeva, raggomitolato, come dentro di lei stava raggomitolato il suo bambino. Portava una divisa militare da tedasc. L’era un tedasc!
Il ragazzino terrorizzato, davanti alla donna incinta che lo guardava, vide in quello sguardo la pena di una madre; riuscì a spiegare che l’avrebbero trovato, che con quella divisa non poteva nascondersi, che sarebbe morto… o forse non spiegò nulla, fu lei a capire tutto.
E allora, quando il figlio maggiore dell’Augusta tornò dalla prigionia e cercò il suo vestito buono, lei con quel neonato in braccio, c’l’arcarvèva1 al nàm dal fradèl mort, gli spiegò che il vestito l’aveva regalato a un giovane tedesco.
L’Augusta gliel’aveva messo addosso quel vestito, perché lei il suo bellissimo figlio di diciannove anni,  morto impiccato quel 12 febbraio del ’44, a Pratomaggiore, non l’avrebbe visto più. Ma c’era una donna in Germania che forse suo figlio l’avrebbe ritrovato grazie a quel vestito buono, da civile.

Questa storia è vera.

Il neonato di allora partecipa ogni anno, insieme a suo fratello, il proprietario del vestito donato, alla celebrazione dell’eccidio di Pratomaggiore, in cui furono impiccati otto giovani partigiani, lasciati a penzolare per due giorni, come memento alla popolazione, con le madri sotto,  in attesa di poter riavere i corpi dei figli.
La storia raccontata dal figlio dell’Augusta, lo spilambertese Franco Nasi, continua a stupire per la grandezza d’animo e l’umanità che rivela.

1 Arcarvèr era usato solo per dire “ricordare un morto attraverso la imposizione dello stesso nome”.

(Redazione di Daniela Barozzi, da un racconto di Franco Nasi.)

martedì 19 giugno 2018

PAGINE DI DIARIO / 27

Da “Ricordi di una ragazzina”, di Liliana Malferrari (stampato nel dicembre del 2015).

Parte settima
ed
ultima puntata.


(Liliana Malferrari con il “suo Nini”)


[...] A 17 anni tornai in Italia, ma i nostri genitori non avevano cambiato idea. Noi continuavamo la nostra storia. Andai a servizio a Modena e lì ci vedemmo spesso. Così mi mandarono a servizio a Milano e fu lì che mi accorsi di essere incinta. Questo scombussolò la nostra vita. Ci sposammo, noi ci amavamo. Ci sposammo alle sette del mattino del 27 febbraio 1954, io non avevo ancora 19 anni e lui ne aveva appena compiuti 20. Non avevamo nemmeno una lira. Andammo quattro giorni a Milano dove avevamo dei parenti che ci ospitarono come regalo.
Quando tornammo a casa, lui tornò a casa sua e io pure. Non avevamo proprio nulla. Dopo tre mesi, sempre in via Obici, trovammo una camera e cucina, senza bagno e lavandino, che era in un pianerottolo in comune con un’altra famiglia. Avevamo un po’ di mobili vecchi regalatici da conoscenti e arredammo questa casa con roba vecchia, ma a noi piaceva tanto. Non so se si può dire, ma l’unica cosa nuova era una stufa a legna che mi regalò mia madre e i materassi di penna, che erano da rimescolare tutte le mattine per stendere bene la penna.
In quella casa nacque nostra figlia Marna. Era il 16 luglio 1954. Non avevamo nulla e nulla. Con l’aiuto di mia madre e Anna, una vicina di casa, si tirava avanti con fatica.
Grazie a tutte quelle persone che sono state tanto generose con me, perché a quell’epoca avevano poco tutti.
Mio marito trovò poi un lavoro stagionale e io facevo qualche lavoretto in casa: cucivo maglie, facevo dei colletti all’uncinetto, per un ragazzino ricamavo maglioni e tante altre cosine. Con sacrificio si tirava avanti.
Dopo tre anni di matrimonio rimasi nuovamente incinta ed ero disperata. L’11 agosto 1957 nacque Moreno. La nostra preoccupazione era sempre la stessa: come fare ad andare avanti, perché i soldi che si prendeva erano pochissimi. Poi successe che a sette mesi Moreno si ammalò gravemente e stette ricoverato un mese in ospedale. Io dovetti stare sempre con lui perché dovevo dargli il latte. Un medico di turno lo salvò e finì tutto bene.
Tirammo avanti così per anni, privandoci di tutte quelle cose che sarebbero piaciute anche a noi, tipo andare al cinema e fare qualche gita, ma ormai la vita ci aveva già temprati.
Noi siamo stati fortunati, perché tanta gente ci ha aiutato. Però ricordatevi che non c’è umiliazione più grande del dover chiedere l’elemosina e mi sono riproposta che questo non sarebbe mai più accaduto. Ho anche imparato che la vita, senza sacrifici, non ti regala nulla, specialmente nei rapporti familiari. La famiglia per me è sacra. Per me i figli sono la cosa più importante. Ho cercato di trasmettere loro tutto il mio amore, anche sbagliando, ma tutto quello che ho fatto l’ho fatto in buona fede.
I figli sono un dono e li ami con i loro pregi e difetti.


Ho tre nipoti, due femmine e un maschio.
Noi rompiamo perché vi vogliamo bene.
Quando avrete bisogno noi ci saremo sempre.
Grazie di volare…



(Liliana con i suoi due figli: Marna e Moreno.)

sabato 9 giugno 2018

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 54

Indovinelli spilambertesi di Annarita Bianchini.



9) La fà gnir i cavî réz,
    e un liquor la benedés:
    forse brisa tôt i-al sàn,
    c-la-ghè sol 'na volta a l’àn!

10) Là se piove stai all’asciutto,
      è il più antico e assai robusto;
      se il passaggio vuoi vedere
      lì ti puoi anche sedere.

11) È famiglia ben piantata,
       in più rami separata:
       breve tutti hanno il cognome,
       ma più strano il soprannome.

12) Per la sagra o la funzione
       ecco buona l’occasione
       per mostrarli all’aria aperta:
       uno a manca e uno a destra.

13) Un cinèin, e un piò grand:
       tôt a-i-am pasè, pasànd.