LA FRENESIA DEL POMODORO
Prima Parte
Una pagina dal nutrito libro di ricette scritte da Marna
Malavasi Soli
In casa la
tensione aumentava. Spesso si parlava a voce alta, ogni argomento era un
pretesto per aprire una discussione; anche i movimenti del corpo tradivano
irrequietudine e irritabilità. «Dobbiamo fare la conserva!», diceva mio padre.
Stavano
maturando i pomodori; mentalmente occorreva prepararsi al lungo lavoro. La luna
doveva essere in fase calante. Era tradizione rispettare quella regola.
Poi arrivavano
loro, le casse piene dei grossi frutti rossi che venivano adagiati su fogli di
giornale, dove completavano la maturazione: una parte di acqua se ne andava, ma
i frutti diventavano più polposi e saporiti.
Davanti a quel
locale, i pomodori dopo il riposo parlavano con il loro profumo: ricordava
quello del sugo lungamente cotto e concentrato.
Il tempo quei
giorni durava meno.
Alle cinque del
mattino il fuoco della legna ardeva già sotto alla caldaia di rame colma
d’acqua; nell’albio, il suo scroscio segnava l’inizio del lavaggio.
Quando la
caldaia bolliva si immergevano i pomodori e l’elevato calore provocava leggere
fenditure nella loro pelle turgida. Erano cotti; con un colino di vimini, a
grandi fessure, venivano messi a sgocciolare in basse cassette di legno (quelle
utilizzate per l’imballaggio della frutta) ricoperte da canovacci, residui di
lenzuola ormai lise; a terra, un sasso o una pietra le teneva rialzate, in
obliquo, per agevolare la fuoriuscita del liquido di vegetazione da eliminare.
I pomodori che
non avevano ceduto al calore venivano bucati con una forchetta e un guizzo di
liquido fuoriusciva; sgonfiandosi lentamente rilasciavano ciò che era rimasto
al loro interno. Più liquido usciva, più densa e rossa sarebbe risultata la
conserva.
Il ritmo
incessante del lavoro non lasciava spazio a conversazioni, tanto meno a uno
spuntino: guai mangiare un po’ di pane o gnocco! Una sola briciola caduta
inavvertitamente poteva compromettere il risultato di tutto il lavoro.
I pomodori dalla
terra al secchio, nell’acqua, nella caldaia, nelle cassette, senza cali di
ritmo. Ed ecco la lunga fila di cassette allineate, sgocciolanti; il rigagnolo
di acqua giallognola giungeva allo scarico.
Agganciata a una
panca di legno la macchina a manovella accoglieva le cucchiaiate fumanti; da
una parte usciva una cascata di salsa rossa raccolta da un largo tegame, dalla
parte opposta gli scarti.
La passata
veniva poi messa nelle bottiglie di vetro ben lavate e pulite che, avvolte in
vecchi stracci, erano sterilizzate nell’acqua di cottura della caldaia.
La
sterilizzazione durava 40 minuti, mentre il fuoco veniva alimentato in
continuazione; intanto si riordinava e lavava l’enorme quantità di cose
utilizzate: mestoli, imbuti, tegami, ingranaggi della macchina, strofinacci,
teli, grembiuli.
L’indomani le
bottiglie venivano sistemate in cantina, quale scorta per tutto l’anno.
L’ultimo lavoro, quello più ingrato, era pulire la caldaia di rame; dopo averla
ben lavata e asciugata, brillava, poi, lentamente, diventava azzurrina, si
ossidava e affiorava il verderame.
Per questa
pulitura ecco la ricetta di zia Luisa:
1. Aceto
e sale, lavare e risciacquare con precisione.
2. Calinda
e sabbia, fregare e sciacquare molto bene.
3. Asciugare
alla perfezione.
La Calinda era
una polvere bianca utilizzata per la pulizia dei bagni, tegami di alluminio e
altro. Chissà se è ancora in vendita.
Quando la
conserva veniva preparata da mia nonna Annetta, lei comprava in farmacia
l’acido salicilico, la cosiddetta “dose”. Il farmacista, in base al peso della
salsa preparata, consegnava una microscopica bustina con la porzione del conservante;
aggiunto alla passata non occorreva sterilizzarla.
Prima della
conserva fatta in casa, la si comperava in negozio sotto forma di concentrato e
si poteva acquistare a peso.
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