giovedì 29 marzo 2018

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 7

IL BRODO


(Anno 1978. Sullo sfondo, centralmente, la facciata principale dell’Osteria di “Zighìna”
- il retro era prospiciente via Obici-; sulla sinistra la parete meridionale del vecchio
“Cinema Farini”. Gli edifici si trovavano sul lato orientale di via San Giovanni,
dove ora si possono individuare la “Galleria Ossimoro”, la pizzeria “Ti Stuzzico”
e l’enoteca “La gàbia dal vèin”. Fotografia da raccolta privata.)


Il brodo si “mette su”.
È questa l’espressione più caratteristica per indicare la sua preparazione.
Il tipo di carne, la varietà degli aromi, la qualità dell’acqua e il suo rapporto con la quantità di carne sono condizioni che concorrono per il sapore di questo alimento.
Il suo profumo, da sempre, ricorda la domenica poiché una volta faceva parte del pranzo del giorno festivo; la carne, che si mangiava raramente, serviva come secondo.
Il brodo è il risultato della bollitura della carne. Si immerge la carne in acqua fredda se si vuole ottenere un buon brodo, in acqua calda se si vuole ottenere la carne più saporita. Per ottenere al meglio il brodo, i tagli di carne che io preferisco mettere in pentola sono: guanciale di manzo, un piccolo pezzetto di coda e di lingua, un po’ di doppione, un pezzetto di copertina morbida e gelatinosa (ottima da mangiare), un quarto di cappone e un osso di zampa di vitello; una cipolla intera con la buccia, una carota e un pezzetto di sedano, sono quasi indispensabili per dare un po’ di aromaticità, e, infine, si aggiunge il sale grosso.
Il brodo deve arrivare a ebollizione molto lentamente, occorre togliere le impurità con un ramaiolo e deve continuare a sobbollire per almeno tre ore, coperto. 
Ogni famiglia prepara il brodo a modo suo, con tagli di carne e quantitativi che soddisfano il proprio gusto; il profumo del brodo sarà sempre riconoscibile, cambierà il sapore. 
Abitavo in via Obici quando, la domenica mattina, nonna Faustina faceva scendere dal secondo piano, dove lei viveva, una lunga corda con attaccato un pentolino in alluminio, munito di coperchio, una sorta di gavetta. All’interno vi era un soldo e io le andavo a comprare un po’ di brodo all’Osteria da Zighìna, situata in fondo alla via. Era Tilde che riempiva il pentolino di brodo profumatissimo, giallo come l’oro e ancora bollente. Consegnato il brodo ricevevo 5 o 10 lire di mancia; quei pochi soldi erano sufficienti per andarmi a comperare un gelato dalla “Nina”.
Nonna Faustina aveva allevato mia madre e mio zio, tutti la chiamavano nonna, ma nella realtà non lo era di nessuno. Non le ho mai visto i capelli, il suo capo era sempre coperto da un fazzoletto nero, questo era l’unico colore che lei usava per i suoi vestiti e grembiuli. Il suo volto era particolarissimo, per il colore e i lineamenti, mi ha sempre ricordato il volto di una zingara. Di casa sua non ricordo quasi nulla, il tavolo in legno della cucina e l’odore, non buono. Vi andavo raramente, venivo invitata solamente per ricevere un pezzetto di cioccolato svizzero, quando sua figlia Antenisca, che risiedeva in quella nazione, veniva a farle visita. Mai avrei pensato che, un giorno, quel pezzetto di cioccolato tanto ambito sarebbe stato così a portata di mano!
La domenica, dopo la messa  delle  nove, passavo a salutare le zie e la nonna.
Nonna Iside e zia Bina avevano già “messo su” il brodo, ed era annunciato dall’intenso profumo che saliva per la scala. Entrambe  conservavano per me una prelibatezza, i tuorli delle uova. Spesso, quando si comprava la gallina per il brodo all’interno vi erano dei grovigli di piccole sfere gialle: tuorli saporitissimi che se il volatile non fosse finito in pentola sarebbero diventate le comuni uova con il guscio. Venivano messe nell’acqua insieme alla carne e tolte appena cotte; acquistavano un sapore unico, ricco, con una consistenza morbida e farinosa. Io le gustavo semplicemente così ed erano sempre straordinarie. Ora le vendono sfuse, sono più grandi, le ho provate, ma non hanno più lo stesso sapore e la stessa consistenza!
Preferisco pensare che quelle sensazioni di gradevolezza fossero dovute alla mancanza di cibi veramente prelibati e che faceva apparire ottime anche le vivande più semplici, ma so che non è così, so che tutto sta cambiando e molti sapori si sono persi, rimasti vivi solo nella memoria.

giovedì 22 marzo 2018

PAGINE DI DIARIO / 25

Da “Per piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.



(Ecco i “giardinetti” ai quali accenna Franca nel suo diario.
Fotografia scattata da Paola Forghieri prima della ristrutturazione
dell’apparato architettonico del “Piazzale della Rocca”.)




Parte undicesima


[…] Quattro o cinque anni dopo la guerra, erano stati costruiti  nel Piazzale due piccoli giardinetti, con cinque o sei alberi per parte, e due panchine, sempre per parte.
Due di queste panchine erano una di fronte all’altra, ma divise dal tratto di strada che dalla Piazza portava all’ingresso principale della Rocca, le altre due erano una su via Monache e l’altra su via Obici.
Dopo cena noi ragazze eravamo le prime ad uscire di casa per occupare una delle panchine che si fronteggiavano, perché da quella posizione si vedeva tutta la Piazza, poi all’arrivo delle persone adulte ci alzavamo per andare a spasso, e se faceva freddo si andava al cinema: verso i diciott’anni incominciai ad andare a ballare.
In paese non c’era una sala da ballo invernale, così quando era possibile si andava nei paesi vicini; ma spostarsi era ancora difficile. Erano ancora pochi quelli che erano riusciti a comprarsi un’auto;
qualcuno più fortunato aveva una vespa o una lambretta e chi aveva una moto di solito era un meccanico. I ragazzi, quando ne avevano la possibilità, la macchina la prendevano a noleggio.
In paese c’era una sala da ballo ma era solo estiva e anche bruttina, ma era meglio di niente: quando si è giovani basta poco per divertirsi.
Sembrava che la gioia di vivere uscisse da ogni poro, tanto era incontenibile. Quando camminavo avevo una sensazione strana, come se il corpo non avesse peso: mi sembrava di non toccare la terra.
Questo, penso, fosse normale a quell’età per tutti i ragazzi, ma non ho mai fatto indagini, specie con le amiche; temevo che mi dicessero che ero un po’ esaltata.
Beh, devo confessare che tanto normale non ero.
Mi viene in mente che, quando avevo circa quindici anni, un pomeriggio ci fu il funerale di un ragazzo morto in un incidente. Sembrava che dentro e fuori dalla chiesa ci fosse tutto il paese. Tutti commossi e piangenti. Nel vedere tutta quella commozione, ho pensato:«Mi piacerebbe morire anch’io!».
E immaginavo tutte quelle persone che dicevano:«Oh! povera Franca! una creatura così buona e brava! Non meritava un così infame e crudele destino!».
Invece di pensare a quel povero ragazzo, ero tutta commossa su me stessa: ero proprio scema!
Devo dire che ho avuto il buon senso di non farmi più venire di questi funesti pensieri.
Io credo che il pensare che tutte quelle persone commosse per la mia dipartita fosse come se mi avessero detto che mi volevano bene... continuavo a portarmi addosso un grande bisogno di essere amata, e volevo disperatamente sentirmelo dire! […]

venerdì 16 marzo 2018

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 49

Indovinelli spilambertesi, di Annarita Bianchini.



4) Chi la zérca, chi la ciàpa,
     e chi-g-pàsa sol ed cô!

5) Operaie specializzate
    là trovavano il suo capo
    e tirando per il filo
    ti lasciavan’ nudo il baco…

6) Fu donata dal gran fiume,
    al miracolo si disse!
    Voglio io saper il nome
    e di casa dove sta.

7) Anni or sono era un ritrovo
    per la donna e la massaia:
    ora giace in abbandono
    perché ognuno lo fa in casa.

8) Sono in quattro, un po’ boriose,
    sol da noi sono famose!

giovedì 8 marzo 2018

IL VECCHIO COMUNE SI RACCONTA / 6

Quel prezioso filo sottile



(Parte residua dell’antico portico del “Pavaglione” o “Pavaione”,
oggi comunemente detto “Portico di Bondi”.)


31 maggio 1578

L’istituzione del “Pavaione dei filugelli”, mercato dove vendere i bozzoli del baco da seta, fu di grande importanza per Spilamberto in quella fine di maggio 1578, ma nascondeva un piccolo mistero, forse un raggiro?
Con il consenso dei Marchesi si decise che il luogo deputato alla vendita sarebbe stato il portico del loro “Vecchio Palazzo”, prospiciente il lato sud della chiesa di San Giovanni Battista, le cui arcate si allungavano verso l’incrocio tra le due chiese, per terminare con una “Colonna rossa”.

Suscitò certo stupore quell’anno, nei primi giorni di giugno, quando quelle arcate furono liberate dai soliti depositi di legname, mentre i cavalli, che lì si abbeveravano, venivano allontanati provvisoriamente. Ormai le nuove sale della Rocca avevano oscurato la ricchezza delle stanze e l’eleganza degli arredi di quella prima residenza feudale.
Con la decisione di istituire il “Pavaglione” si rispondeva al problema delle grida, dei bisticci, delle arrabbiature dei venditori dei “follicelli”, i detti bozzoli, causati dagli errori e dalle frodi che si verificavano soprattutto a causa di persone, si diceva, “che non sapevano e non conoscevano il fatto loro”. Servivano incaricati istruiti ed affidabili. Si nominarono due responsabili delle pesature, dei prezzi di vendita e d’acquisto: Giacomo Zavarisi e Galeazzo Rachello (quest’ultimo facente parte del “Consiglio della Comunità”). La creazione del “Pavaione dei filugelli” permise di vendere i bozzoli senza imbrogli. Inoltre avrebbe in seguito fornito la materia prima per produrre a Spilamberto quella seta che sarà manipolata per secoli dalle “piccole mani” di tante bambine e donne spilambertesi, in quella filanda che la marchesa Bianca Rangoni volle impiantare con tecnologie avanzate alcuni decenni dopo, nel 1610.

Veniamo ora al piccolo mistero. La decisione di cui abbiamo riferito viene presa dai Consiglieri nella “solita Camera delle riunioni”; ma a una deliberazione così importante e urgente non è presente il Commissario del “Castello” di Spilamberto. Come mai? Era rimasto a godersi il tepore del letto (i Consiglieri affermavano “di non averlo voluto scomodare”) in quella tiepida primavera? oppure il fatto nascondeva motivazioni politiche più consistenti? I documenti non lo rivelano.

In ogni caso il tutto avvenne alla fine di maggio di quel 1578, e nelle successive sedute del 1° e 4 giugno; la decisione fu presa dal “Consiglio della Comunità”, con l’approvazione dei suoi “Signori”.
Ecco i presenti alle sedute (un’occasione per gli attuali spilambertesi di ricercare i nomi dei propri antenati):
Baldassarre Corradino, massaro;
Alfonso Fontana;
Pietro Giovanni Frarino;
Galeazzo Rachello;
Bernardo Scaiola;
Agostino Bartolazzi.