mercoledì 26 ottobre 2016

NOMINA NUDA TENEMUS / 2: IL PROFUMO... OSPITALE




La ricerca del profumo che la storia di Spilamberto ha lasciato ci porta a camminare su una strada, quella che per secoli migliaia di pellegrini hanno percorso dirigendosi verso Roma o Santiago.
Molti di loro si sono fermati proprio qui, a pochi metri da dove oggi sorgono le nostre case, trovando accoglienza nell’Ospitale di San Bartolomeo. L’esistenza dell’Ospitale, recentemente riportato alla luce da una campagna di scavi archeologici, è testimoniata nella località che oggi chiamiamo San Pellegrino almeno a partire dal XII secolo.
L’Ospitale ha rappresentato per molto tempo un punto di riferimento geografico: se lo troviamo citato in un’antica carta, siamo certi che il territorio di cui si sta parlando sia quello spilambertese, sia quando il paese non c’era e il territorio non aveva un nome, sia quando l’aveva ma non di tale importanza da identificarlo.
L’importanza dell’Ospitale e la sua presenza in numerosi manoscritti sono dovute alla presenza dei monaci e al legame con l’Abbazia di Nonantola, una struttura economica che sfruttando il territorio ne arricchiva le risorse.
Un documento del 1200 ci parla della ricchezza dell’Ospitale, affermando che nella sua chiesa“ solevano starvi due monaci, con chierici e conversi, con serventi e un cavallo, e più buoi, e diversi armenti”.
Gli scavi archeologici infatti hanno messo in luce la chiesa e l’Ospitale, ampliato con l’aggiunta di un portico, due pozzi e altri ambienti destinati a stalla e a deposito attrezzi. Un nome perciò noto, anche perché era collocato su una strada importante, detta di Castiglione o francese, “strada vocata de Castiono, sive Francisca”.
Oggi i pellegrini hanno ripreso a percorrere le antiche vie, e fra questi vi sono anche alcuni spilambertesi. In paese fioriscono varie iniziative per riaprire un Ospitale e dar ricovero ai nuovi pellegrini.
S. Bartolomeo non è più che un insieme di resti, ma è un nome che il profumo della storia ci ha riportato.

[Nell'immagine: disegno di G. Cevolani, da S. Cevolani, Storia di Spilamberto, Comune di Spilamberto, 2010]


giovedì 20 ottobre 2016

ROCCA DELLE MIE BRAME / 18° : SPILAMBERTO: IL CREPUSCOLO DELLA “PICCOLA PARIGI”


Estate 1733.
I fasti della Rocca.
Eventi rilevanti aggiungevano epiteti già attribuiti a Spilamberto.
Un’enorme concentrazione di granaglie fu raccolta dal marchese Lodovico Rangoni per soccorrere i sudditi durante la stagione fredda. “Un piccol’Emporio d’Egitto” venne denominato il paese. Attenzione verso i sudditi, certamente.
Si aggiungeva però anche l’azione combinata di due elementi:  l’accoglienza principesca ed amabile dei “Signori” ereditari del “Castello”: “Donna Giovanna” e Francesco Giovanni Maria e le carezze del piacevole clima regalate dall’antica presenza del fiume Panaro.
Ed ecco che pranzi, divertimenti, giochi, cacce, passeggiate riempivano i giorni di innumerevoli ospiti notabili; a tutto si accompagnava il frenetico lavorio di domestici ed artigiani che occupavano la giornata per soddisfare le esigenze di tutti quegli invitati.
Un’atmosfera frizzante, giocosa, serena, e Spilamberto veniva così definita una “Piccola Parigi”; una nuova affascinante definizione che consolida il già formulato paragone con gli splendori e l’importanza  della “Corte del re Sole” (vedi diciassettesima puntata della rubrica “Rocca delle mie brame”).
Quando però un bambino di 12 /13 anni, un Gonzaga, imparentato con i Rangoni, morì improvvisamente nel corso del suo soggiorno in Rocca, si affacciò anche il lutto. Venne imbalsamato e inumato nella Chiesa del Carmine, oratorio che la famiglia Rangoni aveva eletto per la sepoltura dei suoi componenti.
Ai festeggiamenti spensierati si sostituirono le esequie: un’enorme quantità di messe in suffragio di quel ragazzetto, cugino della moglie del marchese Lodovico. Magnificenza, sì, ma pur sempre un lutto e per Spilamberto, quasi un presagio funesto. Come se questo fatto avesse aperto la porta per il paese e la Rocca alla decadenza: complici il destino, la natura e le scelte degli uomini.

(Arrivederci alla prossima puntata.) 

mercoledì 12 ottobre 2016

SPILAMBERTO: UNO STRAPPO NELLA MEMORIA / 8° ULISSE, LE SIRENE E... CUMULI D’OSSA


Nel suo ritorno verso Itaca Ulisse, dopo aver lasciato la maga Circe, deve affrontare il pericolo delle Sirene. Con il loro canto esse rendono passivo l’uomo che le ascolta, gli fanno smarrire l’identità, lo  spingono nel grande regno dell’oblio.
Circe aveva avvertito Ulisse prima che riprendesse il mare: “Chi senza sapere si avvicina e ascolta la voce delle sirene, non incontrerà più la moglie al suo ritorno a casa; non gli faranno festa i teneri figli; le Sirene là lo affascinano con il canto melodioso... intorno hanno cumuli di ossa di uomini imputriditi, dalla carne disfatta”. Le sirene infatti, dopo aver sedotto l’uomo con il loro canto, lo mangiano.
Tutti sappiamo cosa accade: Ulisse, protetto dalla dea della ragione, Atena, e dagli ammonimenti di Circe riesce a non soccombere, sigillando con la cera le orecchie dei compagni e facendosi legare all’albero della nave. Soltanto così riesce a passare indenne davanti all’isola maledetta, in cui le Sirene sono esiliate per avere osato sfidare nell’arte del canto le Muse, ispiratrici dei poeti e di ogni creatività umana.
Il viaggio di Ulisse è in qualche modo il viaggio del nostro Archivio (come già precedentemente accennato), ma quest’ultimo ha avuto per ora un esito diverso. I nostri avvertimenti e le nostre proteste, quelle dei 902 spilambertesi con le loro firme, avrebbero dovuto svolgere la funzione di Atena e Circe; come la cera nelle orecchie e le corde intorno al corpo, avrebbero dovuto trattenere l’Archivio sulla propria rotta. Non sono bastate, però, a sconfiggere il canto maligno e le fumose promesse della sirena seduttrice, incarnata nella Fondazione: in questo modo, 600 anni della nostra storia sono finiti a Vignola.
Ma noi continuiamo a lottare affinché l’Archivio ritorni, evitando così la perdita dell’identità del paese e il naufragio nel grande regno dell’oblio.

mercoledì 28 settembre 2016

NOMINA NUDA TENEMUS / 1: IL PROFUMO DI SPILAMBERTO


“Cosa c’è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa non perderebbe il suo profumo se avesse un altro nome”.
Così dice Giulietta a Romeo, distinguendo la persona reale di Romeo, che le parla sotto il balcone e che lei ama, dal nome che lui porta, quello di un nemico che ella odia.
I nomi che noi diamo alle cose non sono le cose stesse, sono solo concetti mentali che ci servono per comunicare. Allo stesso modo Umberto Eco nel romanzo “Il nome della rosa” sottolinea il distacco dei nomi dalle cose: “nomina nuda tenemus”, noi “possediamo (solamente) dei nudi nomi”. Il nome che diamo alla rosa, dunque, non è la rosa reale con il suo profumo.
E il profumo di Spilamberto? Quello è rimasto lo stesso al di là della vicenda dei nomi (eccoli qui!) con i quali il nostro territorio è stato identificato nel corso dei secoli; una vicenda che proveremo a seguire e ricostruire in questa rubrica, partendo da un momento precedente all’esistenza stessa del paese.
Nel 1210, quando viene fondato dai modenesi, Spilamberto infatti ha già il proprio nome, frutto di una lunga evoluzione su cui ci soffermeremo.
Ma prima della fondazione del paese, esisteva già un territorio, quello nel quale oggi viviamo. Ebbene, quel territorio, anche se probabilmente deserto e disabitato (torneremo sul problema), aveva un proprio nome, anzi, più d’uno.
“Nomina nuda tenemus”: forse non c’era niente, ma di quella Spilamberto almeno possediamo (solamente, o quasi) i nudi nomi.

[Nell'immagine: disegno di Gustavo Cevolani]

mercoledì 21 settembre 2016

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 38: 1897, LA PROPOSTA DI UN ARTISTA



La statua di San Giovanni Battista, di Giuseppe Obici, affianca orgogliosamente quella del Cristo, opera di Michelangelo, nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva a Roma!
Un altro tributo romano dell’artista spilambertese.
Una copia di tale scultura, opera realizzata dallo stesso Obici, si trovava un tempo in Santa Maria degli Angioli, nel “Castello” di Spilamberto; fu poi ricollocata dove anche oggi si trova, ma lo spostamento riservava una sorpresa... e il nostro prezioso Archivio ce l’ha svelata.
La ricerca sui documenti a volte può risultare noiosa; sfogli materiale di scarso interesse, ma poi… cerchi, controlli, sbagli, riverifichi e... trovi!
Arriva la testimonianza che non immaginavi potesse capitarti fra le mani. Un colpo di fortuna che porta ciò che non ti aspettavi. E, con fascino, le pedine della scacchiera di un tempo passato si ricompongono.
1897: occorreva un supporto adeguato, di valore, per una statua così imponente; la qualità del San Giovanni lo meritava.
E chi se non un Tacconi poteva presentare la proposta? E fu proprio Eugenio che disegnò il progetto: chiare linee geometriche arricchite da grappoli decorativi di foglie e frutti si apprezzano già nella bozza.
Ma quel piedistallo che oggi sorregge la statua non è quello della ritrovata testimonianza grafica.
Non ci è dato sapere perché non fu scelta, realizzata; i documenti, per ora reperibili, non rendono chiarezza; nello stesso tempo, però, ci permettono di ammirare la creazione artistica del Tacconi, probabilmente oggetto di un “concorso” di idee, di una discussione, di una selezione.
In ogni caso ci lancia un messaggio: l’interesse della Comunità spilambertese per le opere d’arte dei propri compaesani; un esempio da seguire anche nel presente, perché  arte e cultura possono certamente rischiarare tutti i momenti bui che la vita inevitabilmente riserva a ciascuno di noi.

mercoledì 31 agosto 2016

IL VECCHIO COMUNE SI RACCONTA / 2°: PRONTI, E INFREDDOLITI, AL PROPRIO DOVERE!



In quel freddo gennaio 1561 Leonardo Castagneto, agente del marchese Rangoni, era sempre presente, assieme al cancelliere Niccolò Maria Tedeschi, alle riunioni del Consiglio della “Comunità” di Spilamberto.
La sala delle riunioni, sotto il Torrione, fu affollata cinque volte in quello stesso mese. Si richiedevano decisioni importanti, come le nomine del Massaro e del Salinaro. Un problema allora discusso nell’ordine del giorno, che presenta motivo di sorpresa per noi contemporanei, riguardava la “coltivazione del riso”. Di questa coltura, di cui ora non c’è traccia, avremo occasione di parlare, come pure delle qualifiche degli “ufficiali” eletti.
È necessario rimandare la trattazione di questi fatti perché dobbiamo soddisfare l’interesse e la curiosità di quanti attendevano la seconda “Caramella” della rubrica “Il vecchio Comune si racconta”. Infatti  era stato promesso che avremmo elencato i nomi delle persone che componevano il “Consiglio”, composto da “Consiglieri” ed “Aggiunti”, ed alcuni sperano addirittura di rintracciare propri antenati.
Ecco un primo elenco delle persone, in quello scorcio di secolo XVI:
Francesco Baeso (o Baesi), Tommaso Baldocho (Baldoco), Zoanno (Giovanni) Barbetta, Bartolomeo Beletti (o Belletti), Antonio Brizzi, Baldissera Coradini (o Corradino/i), Filippo Lolio (o Lolij o Loglio), Pirino Muradori (o Muratori), Zan (Giovanni) Muradori (o Muratori), Domenico Picigano, Galeazzo Rachello, Zan (o Giovanni) Francesco Scaramuzza, Beleo Sola, Guido Thodeschi (o Tedeschi), Alberto de Zan’ (o Zanni? o “di Giovanni”).
Buona ricerca, e, sperando che qualcuno resti soddisfatto... arrivederci alla prossima puntata!


[Nell'immagine: Sconosciuti di ieri e di oggi: un ponte storico.
Ignote le sembianze dei Consiglieri dell’antico Comune di Spilamberto.
Dai nomi dei componenti il Consiglio dei secoli passati potremo individuare i discendenti?
(Disegno realizzato da Fabiano Amadessi)]


mercoledì 3 agosto 2016

SPILAMBERTESI DA RICORDARE / 5°: DON BONDI, UNA RUVIDA PRESENZA NEL BISOGNO


In canonica una processione di gente a chiedere aiuto, consolazione  o consiglio.
Tempo di benedizioni, a Pasqua: non si metteva  sulla soglia timidamente a mormorare una preghiera, entrava in tutte le stanze, guardava perfino sotto i letti e, alla “razdóra” sull’attenti, faceva notare se c’era qualche “gatto di polvere  di troppo. Lo animava certo l’autorevolezza dell’istituzione che rappresentava, ma anche la personale convinzione del proprio ruolo “didascalico” ed educativo in quella comunità poverissima e ignorante, nella quale era giunto nel 1911. 
Se una ragazza per un qualche problema urgente di famiglia, senza preoccuparsi dell’abbigliamento, si recava da lui, « Oh ragazóla! e’l al modo ed vistir qual lè? Guèrda cuma l’é scalvèda, bróta purzèla!» la redarguiva. Qualcuna si sarebbe inalberata per molto meno, proprio perché teneva alla “reputazioun”, ma da don Bondi, e solo da lui, si accettavano parole così dure come da un padre e poi, come ad un padre, si obbediva a metà.
Egli sempre vicino a chi era in difficoltà, a chi stava male, senza essere vincolato da ideologie partitiche, perché importanti erano i principi morali.
Capitava che mettesse qualche lira sotto il cuscino delle inferme povere. Ad una donna a cui era morto il fratello regalò un libro di preghiere, la Filotea. “Ve’ quast chè t’lè da lézer à to mèdra, par aiutérla in d’al so dispiasèir”. Ella fece di più, insegnò a sua madre a leggerlo da sola, quel libro. Quando dai possedimenti della parrocchia arrivava la legna per l’inverno la scaricavano nel cortile. Lui, con la sua tonaca lisa, chiamava due ragazzi, faceva caricare il carretto e diceva a chi la dovevano portare, non certo a casa sua.
Nel racconto di coloro che l’hanno conosciuto risalta la sua attenzione agli ultimi,  la sua franchezza estrema, il  coraggio e la vita integerrima,
Per uno spilambertese tra i 50 e i 100 anni, don Bondi non è un personaggio storico, è piuttosto un mitico prozio. Stava vicino ai parrocchiani come un  parente  ruvido, un po’ ficcanaso, a cui potevi chiedere in prestito il tabarro o un aiuto per traslocare; uno di quelli che sbuffano quando si commuovono e gli atti di generosità li fanno “scontrosamente”.
Questo il personaggio nei ricordi.
Il don Bondi colto,  antifascista, scomodo prete di frontiera, lo si ritrova anche nei documenti.
Quella carità che avrebbe potuto continuare ad insegnare dottamente come virtù teologale, lui l’ha praticata fra i poveri ed ha incarnato nei rapporti con i suoi parrocchiani  gli ideali di una Chiesa che si voleva rinnovare, e alla quale avrebbe potuto offrire un contributo intellettualmente importante.
Per questo lo potremmo definire un nostro eroe, un personaggio mitico di una Spilamberto sana, pulita ed intensamente coerente con i propri ideali.