Da “Per
piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.
Franca Santunione, sulla sinistra, e Anna Teresa
Morselli
fotografate sulle sponde del Panaro; anno 1951.
Parte decima
[...] Gli anni
passavano e tutto sembrava bello. Anche il lavoro era meno faticoso, non si
lavorava più tante ore al giorno, così che di sera eravamo tutti meno stanchi.
Passeggiavamo in lungo e in largo per il paese e non mancava mai la passeggiata
sul ponte. Ci mettevamo sedute sul marciapiede dando sfogo a tutta la nostra
euforia giovanile, cantando, ridendo e naturalmente parlando.
Siccome quella
era l’età degli innamoramenti facili, i discorsi finivano sempre su questo
argomento. Amori che nascevano e morivano da un giorno all’altro, e spesso a
senso unico.
Io su questo
argomento non avevo mai niente da dire; continuavo a non provare nessuna
emozione per i ragazzi del paese, e non. Ma i non erano ancora pochi, perchè i
ragazzi dei paesi vicini si spostavano con difficoltà. Andavano ancora quasi
tutti a piedi o in bicicletta.
A onore del vero
devo dire che neppure i ragazzi del paese smaniavano per me. Questa è sempre
stata un’indifferenza reciproca. I ragazzi del paese non m’interessavano; non
perchè fossero brutti, anzi, ma solo perchè avendoli conosciuti da sempre erano
privi di mistero.
Io col passare
degli anni ero migliorata: non ero più il brutto anatroccolo. Anche gli occhi
erano andati a posto da soli, senza neanche l’aiuto degli occhiali. Solo se era
brutto tempo, allora avevo un leggero sguardo di venere.
Questo era un
modo di dire un po’ consolatorio ma serviva a non crearmi dei problemi.
Nell’attesa che
arrivasse questo ragazzo speciale, continuavo a parlarne con mia madre
descrivendo questo ragazzo come se dovesse passare la sua vita a guardarmi in
adorazione, finché un giorno, stanca di sentirmi dire quelle che secondo lei erano
delle farneticazioni, mi disse: «Senti figlia mia! So che gli uomini non sono
tutti come tuo padre, ma un uomo come vuoi tu non esiste! Saresti già fortunata
se ne trovassi uno che ti rispettasse!».
«Eppure, io sono
sicura che da qualche parte c’è ».
«Può pure essere
... Il mondo è tanto grande, che vallo a trovare!».
«Oh, non io, è
lui che mi deve trovare! ».
Presa dallo sconforto,
mia madre mi disse: «Mah! Devi essere arrivata da un altro mondo, sembri
proprio una vissuta su un altro pianeta». E se ne andò scuotendo la testa.
Questo dialogo
si svolse un pomeriggio che eravamo sedute nel cortile, sotto casa.
Quell’espressione
di sconforto e rassegnazione sul viso di mia madre mi aveva divertita, ma nello
stesso tempo la guardai con tenerezza mentre si allontanava.
Erano ormai
finiti anche gli anni dell’adolescenza e iniziavano quelli ancora più belli
della gioventù.
Che tempi!!!
Sembrava di aver
il mondo in mano. Noi, poi, eravamo la generazione che nell’età più bella
godeva dei primi vantaggi del progresso. Ci vestivamo con vestiti più carini,
andavamo al cinema quando ne avevamo voglia, e soprattutto il cibo non mancava
(senza sprecarlo però).
Questa è un’altra
ragione per cui sono contenta di essere nata nel 1936; ho avuto così l’età
giusta per godere di queste piccole cose, ma che erano grandi soddisfazioni.
Certo lavoravamo sodo per averle, ma c’era di bello che non dovevamo dire
grazie a nessuno.
Penso che gli
unici che hanno sentito meno questo cambiamento siano stati quelli ricchi, o
anche solo i benestanti perchè possedevano già quello che al povero mancava da
sempre. Il loro era un mondo a parte. Già da piccoli avevano la puzza sotto il
naso; anche a scuola era religiosamente mantenuta questa distanza.
Pazienza, anche se questo faceva un po’ male. [...]