mercoledì 27 dicembre 2017

PAGINE DI DIARIO / 22

Da “Per piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.



Franca Santunione, sulla sinistra, e Anna Teresa Morselli
fotografate sulle sponde del Panaro; anno 1951.



 Parte decima

[...] Gli anni passavano e tutto sembrava bello. Anche il lavoro era meno faticoso, non si lavorava più tante ore al giorno, così che di sera eravamo tutti meno stanchi. Passeggiavamo in lungo e in largo per il paese e non mancava mai la passeggiata sul ponte. Ci mettevamo sedute sul marciapiede dando sfogo a tutta la nostra euforia giovanile, cantando, ridendo e naturalmente parlando.
Siccome quella era l’età degli innamoramenti facili, i discorsi finivano sempre su questo argomento. Amori che nascevano e morivano da un giorno all’altro, e spesso a senso unico.
Io su questo argomento non avevo mai niente da dire; continuavo a non provare nessuna emozione per i ragazzi del paese, e non. Ma i non erano ancora pochi, perchè i ragazzi dei paesi vicini si spostavano con difficoltà. Andavano ancora quasi tutti a piedi o in bicicletta.
A onore del vero devo dire che neppure i ragazzi del paese smaniavano per me. Questa è sempre stata un’indifferenza reciproca. I ragazzi del paese non m’interessavano; non perchè fossero brutti, anzi, ma solo perchè avendoli conosciuti da sempre erano privi di mistero.
Io col passare degli anni ero migliorata: non ero più il brutto anatroccolo. Anche gli occhi erano andati a posto da soli, senza neanche l’aiuto degli occhiali. Solo se era brutto tempo, allora avevo un leggero sguardo di venere.
Questo era un modo di dire un po’ consolatorio ma serviva a non crearmi dei problemi.
Nell’attesa che arrivasse questo ragazzo speciale, continuavo a parlarne con mia madre descrivendo questo ragazzo come se dovesse passare la sua vita a guardarmi in adorazione, finché un giorno, stanca di sentirmi dire quelle che secondo lei erano delle farneticazioni, mi disse: «Senti figlia mia! So che gli uomini non sono tutti come tuo padre, ma un uomo come vuoi tu non esiste! Saresti già fortunata se ne trovassi uno che ti rispettasse!».
«Eppure, io sono sicura che da qualche parte c’è ».
«Può pure essere ... Il mondo è tanto grande, che vallo a trovare!».
«Oh, non io, è lui che mi deve trovare! ».
Presa dallo sconforto, mia madre mi disse: «Mah! Devi essere arrivata da un altro mondo, sembri proprio una vissuta su un altro pianeta». E se ne andò scuotendo la testa.
Questo dialogo si svolse un pomeriggio che eravamo sedute nel cortile, sotto casa.
Quell’espressione di sconforto e rassegnazione sul viso di mia madre mi aveva divertita, ma nello stesso tempo la guardai con tenerezza mentre si allontanava.

Erano ormai finiti anche gli anni dell’adolescenza e iniziavano quelli ancora più belli della gioventù.
Che tempi!!!
Sembrava di aver il mondo in mano. Noi, poi, eravamo la generazione che nell’età più bella godeva dei primi vantaggi del progresso. Ci vestivamo con vestiti più carini, andavamo al cinema quando ne avevamo voglia, e soprattutto il cibo non mancava (senza sprecarlo però).
Questa è un’altra ragione per cui sono contenta di essere nata nel 1936; ho avuto così l’età giusta per godere di queste piccole cose, ma che erano grandi soddisfazioni. Certo lavoravamo sodo per averle, ma c’era di bello che non dovevamo dire grazie a nessuno.
Penso che gli unici che hanno sentito meno questo cambiamento siano stati quelli ricchi, o anche solo i benestanti perchè possedevano già quello che al povero mancava da sempre. Il loro era un mondo a parte. Già da piccoli avevano la puzza sotto il naso; anche a scuola era religiosamente mantenuta questa distanza.
Pazienza, anche se questo faceva un po’ male. [...]


mercoledì 20 dicembre 2017

LE RECENSIONI DI NASCO / 5

"Dal Panaro al Piave"
di Cesare Cevolani,
Istituto Enciclopedico Settecani, 2016


(Disegno di Gustavo Cevolani per la copertina del volume)


Spilamberto non ha avuto morti nella prima guerra mondiale.
Questo afferma in modo sorprendente l’autore.
Sia di supremo conforto alla famiglia il sapere che il Reggimento, orgoglioso dei suoi valorosi soldati, scriverà nel proprio libro storico, a caratteri indelebili, il nome Suo; e lo additerà ai commilitoni come esempio fulgido di disciplina e di valore.
In questo modo si comunicava alla famiglia la scomparsa del proprio caro e non si parlava di morte. La retorica addomesticava i fatti.
Ciò che avveniva a Spilamberto rappresenta la modalità con cui in momenti storici particolari un uso del linguaggio nasconde gli avvenimenti, li trasforma in modo tendenzioso a scopi propagandistici.
Spilamberto diventa l’emblema di un costume più generale.
Questo uno dei meriti del libro: il riferimento puntuale delle vicende spilambertesi (una sineddoche, per dirla con l’autore) e il loro legame con quanto succede in Italia. Lo testimonia anche l’ampia bibliografia che comprende i risultati della più recente ricerca storica sull’argomento. Tale ricerca viene richiamata spesso come commento ai nodi storiografici via via incontrati.
Il volume di Cesare Cevolani, “Dal Panaro al Piave” (Spilamberto, Istituto Enc. Settecani, 2016), ricostruisce gli eventi che videro protagonisti Spilamberto e gli Spilambertesi durante gli anni della Prima Guerra Mondiale (1915-1918). Occorre precisare che non si tratta di un semplice collage cronachistico di fatti; i documenti vengono analizzati nei minimi particolari. Basti come esempio il telegramma di tre righe che troviamo all’inizio e la cui analisi si protrae per ben tre pagine (pp.19-21).
 La prima parte della ricerca è dedicata alle numerose trasformazioni di carattere sociale, economico e demografico che caratterizzano il paese: la guerra prima della guerra; il primo, secondo e terzo anno di guerra. La seconda parte vuole invece ripercorrere le storie dei soldati spilambertesi che parteciparono alla Grande Guerra, gli oltre 140 uomini caduti sui diversi fronti del conflitto; molti dei quali corredati di schede biografiche. Questi sono preceduti, tra l’altro, dell’incredibile paragrafo sui prigionieri. Segue il capitolo sui reduci, corredato da materiali forniti da spilambertesi relativi a genitori e nonni. Le testimonianze utilizzate per la ricostruzione provengono da varie fonti archivistiche, tra cui il ricco Archivio Storico del Comune di Spilamberto. Inoltre elementi di cultura orale e digitale: informazioni, storie e fotografie sono state raccolte parte “in Piazza”, chiacchierando e spargendo la voce tra le persone; parte via Internet utilizzando e-mail e “social network”. Ecco allora la sorprendente presenza di lettere, diari, che raccolgono vicende e microstorie dei protagonisti. Così pure la sorprendente galleria di ritratti che conclude un ricco apparato fotografico. Sono fotografie di spilambertesi, quasi tutte effettuate in studio e in posa, “volti di contadini, commercianti, operai che davanti alla macchina fotografica assumono l’aspetto fiero e marziale richiesto dal ruolo che stanno ricoprendo”.
Il libro si conclude con un utilissimo indice di nomi che ci permette di andare a scovare i nostri parenti e conoscenti. Lo stile di scrittura è chiaro, robusto, efficace.
Grazie all’autore Spilamberto è entrato a far parte della storia della Prima Guerra Mondiale.

venerdì 15 dicembre 2017

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 47

Indovinelli spilambertesi, di Annarita Bianchini



1) Il suo amor gli provocò
    un destino assai fatale,
    ma sui muri tramandò
    ciò che ancor tu puoi trovare.

2) Se con noi tu vuoi giocare,
    dimmi: quanto siam alti dal mare?

3) La ritrovi sempre intatta,
    porta ben la sua età:
    fa da solida corazza
    contro quei che stan di là.

mercoledì 6 dicembre 2017

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 6

Pani neri di Natale di Antonietta



(Pastello di Cristina Grandi)



Seconda parte


[...] I “Pani di Natale” vanno preparati 10/15 giorni prima della ricorrenza.
Per tre pani neri occorrono:
500 gr. di farina per dolci setacciata con il lievito, 2 cucchiai di miele millefiori, 50 gr. di burro, 100 gr. di zucchero, 2 uova, doppia dose (due bustine di lievito chimico), 1 tazza piena di frutta secca (mandorle, noci, nocciole, arachidi) tritata grossolanamente a coltello, 3 fichi secchi tagliati a cubetti, 1 manciata di uvetta ammorbidita nel sassolino, sassolino, saba, frutta candita per guarnire.
Si impastano tutti gli ingredienti aggiungendo tanta saba quanto basta per ottenere un impasto molto morbido, quasi appiccicoso.
Imburrare 3 alti contenitori in alluminio da 20 cm. x 12, infarinarli bene e suddividervi l’impasto, guarnire con la frutta secca, metterli in forno preriscaldato a 200 °C con umidità all’interno, proseguendo a 180 °C per 45 minuti.
Appena tolti dal forno, spennellarli con una miscela in parti uguali di sassolino e saba.
Riporre i pani neri in luogo fresco e mantenerli morbidi spennellandoli nuovamente ogni tre/quattro giorni con il sassolino e la saba.
Solitamente un pane sparisce prima che arrivi il Natale, ma gli altri non mancano mai sulla tavola delle feste.
Alcuni anni fa sono tornata all’ex forno Baccolini, sono entrata, ho parlato del ricordo che avevo e mi hanno lasciato entrare nella zona dei forni: l’ambiente mi è sembrato piccolissimo!
«Avete modificato la stanza ?», ho chiesto.
«No», è stata la risposta.
Uscita in strada mi ha preso una nostalgica malinconia; il forno non era rimpicciolito, ero io che ero cresciuta.
La saba, per chi non la conosce, è un ingrediente molto noto dalle nostre parti; non è altro che mosto di uva fatto cuocere molto lentamente fino a quando non si è ridotto di un terzo. Per impedire che si attacchi sul fondo vi è l’usanza di aggiungere tre noci ben lavate. Per l’alta concentrazione zuccherina, che subisce durante la cottura, si conserva in recipienti con chiusura ermetica senza la necessità di una sterilizzazione.
Mia madre dice che quando era bambina con la saba condivano la polenta; io ricordo che versata in un bicchiere colmo di neve diventava una straordinaria granatina.
Mentre torno indietro nel tempo con la memoria, ricompaiono nel ricordo gli utensili della cucina: la stufa a legna, il fornello con la bombola a gas, “la giazarèina” poi “Lei”, il primo forno casalingo, la Petronilla. Era, questa, un tegame in alluminio, alto, rotondo, con un coperchio ermetico in parte di vetro per potere controllare l’interno; era dotata di un cavo elettrico e, una volta collegata alla
corrente, si scaldava e vi si potevano cuocere gli alimenti, soprattutto crostate e ciambelle.

Come sono cambiati i tempi! Mi sembra ieri, ma sono trascorsi cinquant’anni!

giovedì 30 novembre 2017

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 5

Pani neri di Natale di Antonietta


Prima parte

È impossibile descrivere il profumo e il sapore di questo dolce: è ricco di ingredienti che si amalgamo e si affinano con il passare dei giorni. Ogni volta che li bagno per mantenerli morbidi e sento il loro aroma percepisco il profumo del Natale.
Quando li preparava mia madre, metteva sul tagliere una montagna di farina che aumentava enormemente per tutti gli ingredienti che venivano aggiunti: burro, uova, zucchero e tanta frutta secca (quella che c’era a portata di mano), poi castagne secche cotte e tanto “savor” per riuscire a tenere assieme tutti gli ingredienti. Con l’aggiunta del “savor” il colore cambiava, diventava bruno e iniziava a sprigionare il gradevole profumo del mosto cotto e concentrato.
Quando ero piccola, a casa nostra, come nella maggior parte delle famiglie, non c’era un forno adatto; quello inserito nella stufa a legna era molto piccolo e poco funzionale. Terminato l’impasto, mia madre lo metteva in una grande terrina bianca, lo copriva con un telo pulito e, insieme, andavamo al forno del paese, da Baccolini,  per la cottura.
Per me questo era un momento magico. Arrivate sul posto, aspettando che si liberassero i forni, mi riempivo del profumo del pane che stava cuocendo… una meraviglia. Nel frattempo, su grandi teglie scure posate su di una enorme tavola di marmo bianco, mia madre dava all’impasto la forma arrotondata, di ciambella con il buco. Non era l’unica ad utilizzare quel forno per la cottura di dolci, e così nell’attesa diverse massaie, che si trovavano lì, spettegolavano mentre allineavano tortelli ripieni di marmellata, amaretti, ciambelle e coloratissimi pani neri rivestiti di canditi. Era il fornaio a dare il via alla cottura mantenendo l’ordine delle prime teglie preparate. Il profumo della stanza lentamente cambiava facendosi sempre più dolce e aromatico, anticipando il gusto di tutte quelle prelibatezze. Appena tolti dal forno, mia madre spennellava con una mistura scura i pani che diventavano così lucidissimi. I pani neri non erano il mio dolce natalizio preferito. Non amavo la loro durezza, ma rappresentavano comunque il Natale. Dopo essermi sposata, per anni ho evitato di riproporre questo dolce, ma poi ho desiderato riprovare quel gusto e non l’ho più abbandonato. Ora utilizzo la ricetta di mia zia che è la stessa di sua madre Antonietta. [...]

Arrivederci alla prossima settimana per la seconda parte: troverete... la ricetta di Antonietta!

mercoledì 22 novembre 2017

ROCCA DELLE MIE BRAME / 23

FINE '700

DIALOGO TRA ROCCA E TORRIONE




-Ma chi sono questi? Cosa vogliono?
-I francesi mia cara Rocca, i francesi.
-Uh! non sopporto questa gentaglia.
-I francesi, mia cara, i francesi.
-Dove sono le feste, i matrimoni, i pranzi sontuosi, i bei vestiti, che tu, mio imponente e serio Torrione, adocchiavi da lontano... e le carrozze, i giochi e le battute di caccia nel parco!
-I francesi, mia cara, stai calma.
-E tutti quegli splendidi gentiluomini nobili.
-I francesi, mia altezzosa compagna, hanno eliminato i privilegi della nobiltà; adesso sono tutti uguali: niente più titoli.
-E i Rangoni? Non li vedo. Sono scomparsi.
-I nuovi governanti si sono impadroniti dei beni feudali.
-Beni feudali? Ma la Rocca appartiene a loro, ai Rangoni!
-I beni feudali sono quelli che il Duca ha dato in concessione ai nobili, e i governanti francesi hanno deciso che la Rocca è feudale. Se ne sono appropriati, anche se il Marchese sostiene che è un bene allodiale, cioè suo personale.
-Prima i paesani mi facevano, a volte, compagnia, passavano qui dentro, nel tratto dal Panaro al Castello, mai nelle stanze! Ora me li trovo persino in quella del Trucco: risate sguaiate; e quei paroloni libertà, uguaglianza, patriottismo. Alcuni ambienti diventano quartiere per soldati, si riempiono anche di bacchette di carbone, dicono che siano per la polveriera.
-Già, quei francesi.
-Ho freddo, i camini sono spenti, c’è il gelo del vuoto. Nessuno si occupa di me. La sporcizia. Certe finestre rimangono aperte: l’umidità. Alcuni vetri sono stati rotti. I pavimenti sono ingombri di calcinacci: non è semplice calcina, ma splendidi affreschi che si staccano. Pensa, è stato usato come fermo un pezzo di una porta di splendida fattura. Che tristezza!
Questo il lamento della Rocca.

Il 12 ottobre 1796 il “Comitato di Governo degli Stati di Modena”, a seguito del Proclama riguardante la soppressione dei Feudi, confisca i beni feudali del territorio del Ducato; anche la Rocca viene avocata al Demanio. La famiglia Rangoni sostiene che è un bene allodiale, privato, e in un documento del 1807 la definisce “Palazzo”, utilizzata sia come residenza sia come soggiorno estivo e autunnale. Nella Rocca, si afferma, non sono mai esistiti: “Locali per la Custodia dei delinquenti [] Raccogliesi dai Libri di Casa che considerabili somme sono state anche negli ultimi anni impiegate nella riedificazione di tale fabbricato [...] anche la prima pietra del Palazzo stesso, e sua edificazione, sia stata gettata, e seguita dagli antenati di tale Famiglia”.
Nel 1812 la Rocca torna ad essere proprietà Rangoni, in seguito alla restituzione dei beni ex feudali non venduti.

Ascoltiamo, però, con attenzione gli insistenti lamenti della superba Rocca: nelle sue parole si può già percepire l’ombra di una inevitabile e vicina decadenza. Il tempo confermerà.

mercoledì 15 novembre 2017

LE RECENSIONI DI NASCO / 4

“LA SQUILLA RAPITA”
(terza parte)


di Lamberto da Spiniosilva (pseudonimo di Silvio Cevolani),
Mercatino di via Obici, CXXVII Fiera di San Giovanni, Spilamberto, 24 giugno 1997.


Disegno di Gustavo Cevolani


Sintesi della puntata precedente

Il conte Boschetti di S. Cesario, per mezzo di un banchetto pantagruelico, convince Piccardo e il suo drappello di gran bevitori a muoversi in aiuto dell’imperatore Barbarossa. Questo era in guerra con il Papa e aveva posto l’assedio a Castelfranco.

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Dopo la grande abbuffata, senza sapere come, i prodi si risvegliano sul greto del Panaro. La scena è “patetica e penosa [...] mandavano un puzzo d’orinale/ che con gran gioia un rosso bastardino / saltellando annusava lì vicino”. Litigano subito sul da farsi, finché Piccardo fa notare che si trovano sul lato bolognese del fiume, in terra nemica. Si va alla ricerca di un guado, “Era d’estate e il fiume era ridotto / a poco più di un largo torrentello / profondo sì e no fino al panciotto. / Nondimeno, guadare fu un macello: / molti finiron con la testa sotto, / altri persero l’armi od il fardello / e fu un gruppetto di pulcin bagnati / che infin raggiunse i prospicienti prati. Un altro pisolino. Al risveglio l’esortazione di Piccardo di andare a compier la missione esalta a tal punto il loro eroico coraggio che “...freddini: ognun, pallido in volto oppur paonazzo, / di sottecchi guardava i suoi vicini/ come a esortarli a toglier l’imbarazzo: / ma intorno si vedean sol capi chini. Si accetta perciò la proposta di Farinazzo; egli convince anche Piccardo con del pignoletto che “a mo’ di precauzione, / seco portava dentro un bariletto” e si dirigono nella parte opposta, verso Spilamberto. “Era il cammino aspro e accidentato, sassi dovunque, arbusti in gran groviglio”. Sembra l’ingresso dell’inferno dantesco.

La fattoria del paese li accoglie con “un profumino / di cacciatora, o forse di soffritto”. Se inferno è, è quello di un’osteria. All’intimazione di Piccardo “di spalancar le ante” entra nella vicenda il primo spilambertese “ed una testa fece capolino / mostrando un volto invero un poco strano : / gialli i capelli, occhio malandrino, / la pelle da selvaggio americano, / ovverosia color rosso rubino [..]”, il contadino, un certo Bergonzini / più noto come Chiacchi all’osteria. Alla richiesta di cibo replica: “posso darvi fagioli e maltagliati, / se potete pagar cinque ducati”. L’affermazione sta per scatenare uno scontro quando entra in scena un protagonista che dà l’avvio vero e proprio alla vicenda. “Piccardo corse con la mano al brando / e già Chiacchi traea  fuori il forcone / ancor di sterco ricoperto, quando / dietro al fienil scoppiò gran confusione / d’alte voci che stavano gridando / in preda a gran trasporto di passione. / Emise Chiacchi un grido di dolore, / sbiancossi in volto e urlò: l’Imperatore!”.

mercoledì 8 novembre 2017

PAGINE DI DIARIO / 21

Da “Ricordi di una ragazzina”, di Liliana Malferrari
(stampato nel dicembre del 2015)


Parte quinta



(Fotografia di via Obici, ripresa dal lato nord.)


[...] Vorrei poter spiegare come era via Obici: una strada fatta di sassi, un portico bellissimo, una fontana all’inizio dei portici. Sempre all’inizio del porticato c’erano i gabinetti pubblici, sempre con tanta puzza. In via Obici c’erano tante “canole” alle quali si accedeva dalle abitazioni dei “birocciai”. C’erano le stalle con i cavalli, le sue “aldmere”. C’erano anche topi grossi come gatti, ma pochi gatti, perché in inverno molta gente li mangiava. È successo anche a noi.
A quel tempo si andava a prendere l’acqua alla fontana, con dei secchi. Nessuno aveva l’acqua in casa. L’acqua serviva per fare da mangiare e per lavarsi. Serviva per tutto. Dopo averla adoperata, ti serviva un altro secchio per metterci quella sporca e la portavi giù, nella fogna. Qualche abitazione aveva il pozzo: con una corda mollavi giù nel pozzo un secchio e lo tiravi su pieno.
Alla fine del portico c’era una osteria chiamata “Bucler”. Lì facevano anche qualcosa da mangiare.
C’era gente che suonava la chitarra e un mandolino e cantavano gli stornelli. Nella sua miseria era una via di gente allegra, ma anche strana. Sarà sempre la mia bella via Obici!
Nell’aprile del 1945 finì la guerra, ma non la fame. Avevo dieci anni e cominciò un altro periodo nero, ma piano piano si cominciò a ricostruire e cominciai a lavorare. Al mattino andavo a scuola, facevo la quinta elementare, e di pomeriggio andavo da una signora a badare a una bimba piccola. La portavo a spasso poi le preparavo la merenda: era un biberon di latte e dovevo metterci dentro quattro biscotti, ma due li mangiavo io di nascosto (però la bimba è cresciuta bene ugualmente).
Non avevo tanto tempo per giocare, così un giorno pensai di prendermi una vacanza e feci cabò. La mia cara amica Elettra aveva avuto il tifo e così non andava più a scuola. Tutti i giorni portava la sua papera a mangiare su un’altura della Rocca. Pensai di andare con lei a giocare. Dopo tre giorni mia madre se ne accorse e mi diede così tante botte che mi venne la febbre. Da allora non stetti mai più a casa da scuola e dal mio lavoro dalla signora!
Finito le scuole feci altri lavoretti per aiutare in casa. Ne ho fatti tanti di lavori. [...]

mercoledì 1 novembre 2017

SPILAMBERTO: UNO STRAPPO NELLA MEMORIA / 9°

Un sobbalzo per allontanare la forbice del Tempo



(Pastello di Cristina Grandi)


Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre. [...]”

La memoria secondo Montale è il luogo in cui il poeta conserva il viso della sua donna, grande nel ricordo e colto nella sua disponibilità all’ascolto. La preghiera è rivolta al tempo che, visto come forbici, taglia via tutto lasciando solo una inconsistente nebbia. La memoria, in questa poesia, è concepita come un serbatoio di ricordi, uno statico contenitore, preda e vittima predestinata della ferocia del tempo.
Ma la memoria è anche l’atto stesso del ricordare, una funzione attiva, consapevole; è fermare la mente per rievocare, perciò non è soltanto un magazzino di ciò che è stato, è il richiamare il passato anche dopo anni. Ce lo dice pure la sua etimologia. La parola memoria è formata da una radice “mer” presente anche in greco; indica inquietudine, il sobbalzare della consapevolezza. Quindi un’azione, non la stabilità; il momento in cui la memoria si mette in movimento consapevolmente nella singola persona per far uscire i ricordi dal cuore.
N.A.S.CO. vuole provocare questo sobbalzo per evitare il pericolo non solo del Tempo, ma anche della lontananza che ci separa dal nostro Archivio, anch’esso memoria che vogliamo viva e in mezzo a noi.

mercoledì 25 ottobre 2017

IL GIGANTE SPINALAMBERTO “BERTO PER GLI AMICI” / 2 (seconda parte)

Le storie del “doppio”:
“Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”,
raccontato da Giulia Lorenzoni
(seconda parte).


(Disegno di Fabiano Amadessi)


[...] «Una notte, all’improvviso, la casa venne scossa da un urlo tremendo. Corremmo tutti verso la fonte di quel suono straziante ma la porta del laboratorio era chiusa. Cominciai a prenderla a spallate fino a che il legno non crollò sotto il mio peso - ero giovane e forte! La scena che si aprì davanti ai miei occhi era incredibile e orripilante: il busto magro del dottor Jekyll usciva dalla pancia squarciata di un essere corto, storto e coperto di peli. Le gambe erano ancora intrappolate come se Jekyll stesse cercando di scappare dal ventre di un mostro! Tutti correvano e urlavano senza sapere bene cosa fare. Io mi chinai verso il corpo insanguinato e sentii il dottore che, con un filo di voce diceva: “l’acqua sta nelle rose, le rose, le rose, la marea”. Furono queste le parole che mi consegnò prima di morire».
«Non andai al suo funerale, c’erano troppi giornalisti. Era arrivata la polizia e avevamo dichiarato che la seconda vittima, quel corpo inspiegabile, era probabilmente l’aiutante del dottore, il Signor Hyde. Tuttavia nessuno era riuscito a confermare l’esistenza di quell’uomo misterioso. Andai in giardino a curare le piante e fu mentre innaffiavo le rose che trovai la lettera».
«La lettera? Che lettera? », chiesero i bambini quasi in coro.
«Il testamento del dottore».
Berto tirò fuori con cura la busta da una tasca e si mise a leggere:
«“Caro Berto, so che sarai tu a trovare questa mia lettera, tu che hai tanto a cuore i fiori. Io, invece, nel cuore avevo ben altro. Nella mia vita, ho sempre pensato che nelle persone si mescolano il bello e il brutto in parti diverse, impossibili da controllare. Bello e brutto, bello e brutto, lo senti? Come le maree. Come è possibile tenere a bada l’acqua che riempie un contenitore? Prima o poi quell’acqua sceglierà dove riversarsi. Io, Berto, volevo solo separare il buono dal cattivo, liberare l’uno dal peso dell’altro e lasciarli andare soli per la loro strada: puro male e puro bene, divisi. Così creai una pozione che poteva separare il bene dal male. Bevevo un sorso e diventavo Hyde: potevo uccidere e sbranare senza sensi di colpa e mi sentivo forte, libero. Ma poi questo mostro diventò più forte di me e la trasformazione avveniva anche senza che io bevessi la pozione. Vedi Berto, la violenza è come l’acqua, quando corre si porta via tutto” ».
I bambini ascoltavano zitti zitti.
«Vedete, il dottore si uccise per fermare la furia cieca di quell’uomo che dentro di lui correva indietro verso gli istinti più incontrollati. Hyde era una parte di Jekyll, una bestia feroce che, lasciata libera, avrebbe divorato tutto ciò che di umano c’era ancora nel buon dottore».
Berto si grattò di nuovo l’orecchio e quei tre peli che gli ricordano, ogni giorno, che la rabbia arriva come le maree, a dirci quanto male possiamo fare.

mercoledì 18 ottobre 2017

IL GIGANTE SPINALAMBERTO “BERTO PER GLI AMICI” / 2 (prima parte)

Le storie del “doppio”:
“Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”,
raccontato da Giulia Lorenzoni
(prima parte).


(Disegno di Fabiano Amadessi)


A Berto quel giorno prudeva un orecchio. Continuava a grattarsi fuori e dentro come non capisse bene da che parte arrivava il solletico. I bambini lo guardavano senza sapere se ridere o rimanere  seri  fino a quando un temerario disse:
 «Ma Berto! Hai i peli sulle orecchie!».
A quel punto tutti si sentirono autorizzati a far smorfie di divertito disgusto. Berto cominciò allora ad accarezzarsi il lobo, come tranquillizzato dalla natura di quel fastidio.
 «Be’» disse, facendo ciondolare la testa «del resto discendiamo dalle scimmie che sono piene di peli». Fece una risata e prese a fissare nel vuoto cercando nella memoria. «Sapete, un tempo facevo il giardiniere per un famoso dottore, una persona per bene, tanto stimata da tutti, molto gentile. Si chiamava Jekyll e aveva una casa con un giardino, dove lavoravo io, e un laboratorio. A tutti noi domestici era vietato entrare nello studio dello scienziato finché un giorno venimmo informati che un collega del dottor Jekyll, il signor Hyde, avrebbe avuto libero accesso all’intera abitazione, compreso il laboratorio segreto. Una mattina, ci vennero a dire che la notte precedente una bambina era stata trovata nel vicolo picchiata a morte con straordinaria violenza. Il dottor Jekyll si mise le mani al volto, e uscì dalla stanza. Era un uomo molto, molto sensibile».
I bambini ora ascoltavano Berto senza più pensare ai peli.
«Da quel giorno in poi, il dottor Jekyll cominciò a passare sempre più tempo nel laboratorio, tanto che alle volte non lo vedevamo rientrare nemmeno la sera. Si notava solo una luce che rimaneva accesa nel buio dell’edificio. Ero molto preoccupato per il dottore tanto che una notte mi avvicinai alla finestra. Vidi una figura più piccola e curva di Jekyll che si aggirava da un tavolo all’altro trascinando i piedi come se le gambe fossero rigide. Si sentiva un sibilo strano come di qualcuno che fatica a respirare. Sentii un brivido lungo la schiena e me ne andai. Che quella figura fosse il misterioso signor Hyde? ». Berto ricominciò a grattarsi l’orecchio.
«Il giorno dopo, mentre portavo rami secchi nella spazzatura dietro casa, trovai un cane sgozzato sul marciapiedi».
«Ma chi lo aveva ucciso? », interruppe un bambino.
«In realtà non lo scoprimmo mai, ma vi posso assicurare che non era certo stato un uomo perché sul collo dell’animale c’erano i segni evidenti di denti aguzzi come quelli di una belva».
I bambini stavano in silenzio e i peli di Berto sembravano luccicare al sole.
«Seppellimmo il cane in giardino, davanti allo sguardo addolorato del dottore. Per una settimana la porta del laboratorio rimase sempre chiusa, poi un giorno, mentre innaffiavo le rose, il dottore si avvicinò. Il suo sguardo era magro e la sua voce un sussurro faticoso. Mi chiese se avessi mai provato tanta rabbia da voler uccidere qualcuno. E se avessi potuto farlo impunemente, lo avrei mai fatto?».
Berto si spulciò i peli dell’orecchio e rimase in silenzio per qualche secondo prima di ricominciare a raccontare.
«Mi disse, “vedi Berto, la rabbia è come la marea: prima o poi sale. E contro l’acqua non si può nulla”, e se ne andò sospirando».
Lo sguardo dei bambini si fece basso.
«Una notte, all’improvviso [...]

Arrivederci alla prossima settimana per la seconda parte.

mercoledì 11 ottobre 2017

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 4

Tortelloni di zucca


Pastello di Cristina Grandi

Massimo Bottura dice che la tradizione è importante, ma deve diventare occasione per andare avanti, non motivo di rimpianto. Sono d’accordo, ecco perché nella mia ricetta, per quattro persone, assieme a 3 uova, 240 gr. di farina 00, ho previsto 60 gr. di farina di semola di grano duro. La pasta sarà così più resistente alla cottura e più croccante.
500 gr. di polpa di zucca Mantovana o Marina di Chioggia, le mie preferite, aprono il ripieno. Si aggiungono 2 amaretti industriali, 70 gr. di parmigiano, 1 cucchiaio di sapore o di mostarda di mele Campanine, sale e noce moscata. Burro e salvia per condimento.
Ma veniamo alla preparazione.
La zucca lavata, senza picciolo, a spicchi, privata di semi e filamenti, viene cotta per un’ora nel forno a 180° in un cartoccio di carta alu. Si elimina l’eventuale liquido terminando la cottura senza chiudere il cartoccio; la zucca deve essere morbida; poi, separata dalla pelle, la polpa viene passata al setaccio. Si uniscono agli altri ingredienti gli amaretti ridotti in polvere con il mattarello. Il ripieno, pronto con un giorno di anticipo, si riposa in frigo. L’impasto, preparato con farina e uova, viene lasciato almeno mezz’ora a temperatura ambiente avvolto in pellicola da cucina. La pasta ottenuta viene poi stesa, ritagliata in quadrati di 5-6 cm. per modellare i tortelloni, e, mentre si procede alla loro cottura, in una larga e bassa padella si scioglie il burro, aggiungendo salvia finemente sminuzzata e un pizzico di sale. Prima di scolare i tortelloni mettere due cucchiai di acqua di cottura nel burro, e in esso si faranno saltare una volta pronti.
Nel piatto non può mancare l’accompagnamento del parmigiano.
Occorre fare attenzione alla consistenza della zucca poiché varia. Se la polpa è molto acquosa la si passa al setaccio e in un telo pulito si appende, così perde il liquido in eccesso.
Se invece è troppo soda, si sostituiscono 100 gr. di zucca con lo stesso quantitativo di ricotta. Questo accorgimento può essere utile anche per diminuire la dolcezza del ripieno, che non tutte le persone apprezzano. Per lo stesso motivo, mia madre aggiunge al ripieno della salsiccia cotta in un tegame antiaderente. Il grasso prodotto dalla salsiccia viene eliminato.
Quella volta in cui ho partecipato alla rassegna “Chef per un giorno”, a Campione, e ho cucinato i miei tortelloni di zucca, dopo averli saltati ho aggiunto gocce di aceto balsamico tradizionale. Il bis che tutti hanno fatto mi è sembrato un omaggio a Spilamberto.

La zucca sfornata sollecita tutti i sensi: il suo profumo, il suo arancio intenso. La cottura ha caramellato parte dello zucchero rendendo brillanti e ambrate le parti più sottili; queste sono le prime che tolgo, sono croccanti e saporite, per la loro consistenza non le utilizzo per il ripieno, non resisto e le mangio. Il sapore non è cambiato, è dolce mieloso, zuccherino... mi affiora il ricordo.
Da bambina spesso accompagnavo mia zia Rita a comprare frutta e verdura al chiosco di Alma, che sembrava appoggiato al Torrione. Con l’arrivo dell’autunno, oltre ai prodotti freschi, Alma vendeva cipolle, patate americane e fette di zucca cotte al forno; mia zia non mancava mai di acquistarne una per me, sapeva quanto mi piaceva! E in quella merenda c’era la felicità di stare con lei, la gioia di ricevere le sue coccole nelle notti trascorse a dormire assieme, ascoltando le sue favole prima di addormentarmi. Ho sempre pensato che fosse il mio angelo custode.
Ancora oggi, quando arrivo al numero 27 di via Obici, guardo la finestra, quella che era della sua cucina; mi sembra di vederla ancora lì, affacciata. Il sapore della mia merenda preferita è legato a questo ricordo.
La zucca, che matura a fine estate, in luogo buio fresco e asciutto si conserva fino a inizio primavera. È l’ideale per chi è a dieta perché con la sua compattezza sazia alquanto; inoltre 100 gr di zucca contengono solo 17 calorie.

mercoledì 4 ottobre 2017

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 46: STRADA FACENDO

(Tratto del percorso su cui doveva transitare il Poppi e che affiancava il Canale del Diamante quando incrociava il Rio Secco, zona in cui si trovavano le proprietà dei citati fratelli Savani, sinistra fiume Panaro; località attuale: Ponte del Re.
Sezione di mappa presente nell’Archivio di Stato di Modena,
 Mappario Estense, Grandi Mappe, anno 1740.)


Un sussulto, uno scossone improvviso, capita spesso mentre si viaggia. La buca, le buche; ormai è un rosario di sobbalzi, lamenti di ammortizzatori, accuse da quello di fianco: “tannin schiv gnanc óna”. L’asfalto presenta spesso crepe sospette in prossimità dei canali di scolo laterali; a volte parte della strada è in fondo al fosso... e quel camion rovesciato nel terreno sottostante o qualche altro veicolo fuoriuscito dalla propria traiettoria.
Anche nella moderna Berlino ci si lamentava di “buche nelle strade” in occasione del recente consulto elettorale.

Andiamo in Archivio.
Maggio 1811.
Allora non c’erano macchine in circolazione, ma carri, legni si diceva.
Gaetano Poppi, incaricato dei trasporti dei nitri e delle polveri da Modena a Spilamberto, domanda all’Intendente che siano restaurate le strade: “La strada che conduce a Spilamberto essendo in diversi punti guasta e dirupata nelle sponde, particolarmente in faccia alla provana (intendi, con termine moderno, "carreggiata") delli figli fratelli Savani si è resa angusta per modo che si corre gran pericolo, passando con legni carichi di mercanzia o d’altro, di cadere in uno dei canali che la costeggiano come purtroppo è successo giorni orsono ad un povero vetturale che passava con carico di formentone. Il più delle volte anche i miei carrettieri hanno dovuto valersi dell’opera dei passeggeri per far sortire i bancali dalle buche o per sottrarli al pericolo di un ribalto. Incaricato dunque del trasporto a Spilamberto dei nitri e delle polveri, avuto riflesso (pensando) al valor grande dei generi, all’interesse mio proprio ed a quello della finanza, mi trovo in dovere di informarla del disordin, affinché rivolga alle autorità superiori la richiesta di pronto restauro alla strada, per evitare così qualunque disgrazia”.

Che ne dite?
Sembra che parli anche per noi.

mercoledì 27 settembre 2017

CAPRICCI DIALETTALI / 13


Una delle case in cui hanno abitato, e risiedono tuttora, alcuni componenti della famiglia Tacconi. Qui – in via Santa Maria – ha vissuto fino alla morte Eugenio Tacconi, suocero di Giordano Cantergiani, al quale l’autore fa riferimento nel suo brano “La peinsa”.
Fotografia da raccolta privata.


“LA PEINSA”

di Giordano Cantergiani


Come a giva, ogni tant, me suocero, Eugenio: «Sta not a-i-ho durmi poc». Me a dmandeva: «Come mai?» e lò: «A me gnu La peinsa».
A vrev pruver a spiegherev, ma a srà seinzeter capite a quesi tot vueter, cosa lé La peinsa.
L’è un quel che, prevaleintemeint, al vin andand avanti coun l’ete, perché, quand lò al giva acsè, am gniva quesi da reder e dato che a-i-era piò zoven, an m’arcurdeva d’an averla mai avuda.
Andand avanti coun l’ete, ogni tant, am capita d’eser “colpì” da cal quel chè. An so menga a vueter, ma a me am capita che a vagh a let e anch se a zerch ed durmir, an egh la chev menga.
Subet a peins a cs’a-i-ho magne, forse a me vanze quel edco al stamegh.
Meinter a soun lè a occ sre, al zervel al taca a lavurer.
It venen in meint, come del lusned, ed quand t’er cino, que che ten ti arcurdev piò, mumeint ed la to veta, be o brot. Fat che ten t’arcurdev d’aver memorize. Fat vec e receint, paroli deti o menga deti. T’arvév mumeint bele vissu. T’arvad amigh che in gh’ein piò e amigh che i-an fat la veta tegh.
T’arvad i to genitor, zoven, che magari it braveven e i eren sever, ma l’era par al to bein. E quast t’l’arev capi dap tant teimp. T’arvad bravedi, anch pericolosi, par fortuna, finidi bein.
Parchè, adesa, a in soun cunvint, tot qual che te vest e vissu le ste come registre. Anch i que che i peren insignificant, i ein ste e i vinen immagazzine dal zervel e in ona qualsiasi Peinsa gnir fora e ferti arvever.
E po’ t’ariv a gl’interrogativ: Sounia ste un brev’am? Mè sounia cunteint ed mè? Sounia prount par ander avanti? S’agh srà dap? Sounia a post coun la coscieinza? E la Fed? Sounia a post coun Dio?
Parchè anch s’et crad o t’an crad (menga), al “dapp” le seimper in incognita. Un selt in dal bur pin ed dobi. E, se’t crad et po dir: «Sgnor, a srev prount, ma, dam ancara un poc ed teimp, a-i-ho ancara tant que da fer, però, fa Te».
E meinter et peins a ch’el cosi chè, pianein pianein a se smorza la luseina e t’indurmeint.


Testo tratto da: “Lè dal pòunt la zirudèla”, ed. Istituto Enciclopedico Settecani, Spilamberto, 6 novembre 2015.