lunedì 30 luglio 2018

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 55

Spilamberto 1850: i barbieri e la porta socchiusa


Anni Cinquanta del Novecento, via del Borgo – oggi via F. Roncati –
Barbieri davanti al loro negozio, da sinistra:
Nino Ferioli, Afro Pelliciari, Luigi Orsi detto “Gigiulèin”.
Fotografia: raccolta privata.


La polemica sul lavoro nei giorni festivi si è sviluppata da quando il governo Monti ha liberalizzato la materia. Ricorrenti sono state le polemiche dei sindacati, con l’intervento addirittura del Papa a proposito del Natale, quando ha affermato che vuole la domenica “giorno di gioia e di astensione dal lavoro”. Ora è allo studio del Parlamento una proposta di legge con  l’obiettivo di cancellare quanto è stato precedentemente introdotto.
Due documenti, conservati nell’Archivio Storico Comunale di Spilamberto, datati 1850, sembrano parlarci di oggi: il problema è analogo, ma con un punto di vista sorprendente. Andiamo a leggerli. Si tratta di una richiesta dei barbieri di Spilamberto: l’Ispettorato di Polizia li ha avvisati che dovranno chiudere le loro botteghe alle ore 10 del mattino di ogni festivo e riaprirle solo nel seguente giorno feriale.
I barbieri scrivono al “Marchese Consigliere di Stato”, probabilmente Giuseppe Rangoni Machiavelli, e, pur giudicando la richiesta dell’Ispettorato “giusta e santa”, gli fanno presente che “le circostanze del luogo e del loro bisogno” si oppongono a tale disposizione. Il documento così continua:
“In Spilamberto l’unico giorno in cui si presenta a farsi radere veramente discreto numero di concorrenti (clienti) stabili ed avventizi (saltuari) si è il festivo”. Non solo: “Nel giorno di lavoro inutilmente assistono (stanno) al negozio e nelle ore festive del mattino sino alle dieci non potrebbero soddisfare al bisogno degli avventizi stessi, contadini di condizione, i quali per la metà parte vengono più tardi al paese e solo quando quelli che intervennero alla prima messa son ritornati a casa per dar luogo all’altra metà  di venire all’ultima”.
Non basta ancora: “in niun altro giorno vi è in questo paese concorso di gente per non esservi mercato od altro titolo di richiamo”.
I barbieri aggiungono anche il loro bisogno: “I ricorrenti poi padri di numerosa famiglia senz’altro mezzo a guadagnarsi il vitto per sé e per la prole sarebbero ridotti all’estrema miseria, se loro venisse proibito di proseguire a porte socchiuse il loro mestiere fino a mezzodì, come anche di potere dopo pranzo, dopo l’uffiziatura di chiesa, rimettersi sempre a porta socchiusa al servigio degli avventori”.
Questo perciò chiedono “di potere anche dopo le ore 10 del mattino festivo e nel dopo pranzo dopo l’uffiziatura di chiesa stare nelle rispettive botteghe colle porte socchiuse attendere a radere le barbe come sempre fu costì tollerato, a non privarli di questo mezzo di guadagno pel loro bisogno”. Seguono le firme dei barbieri del paese: Giovanni Orsi, Gaetano della Valle, Pietro Vandelli, Giuseppe Fabriani, Sante Parmigiani.
La risposta che viene inviata dal governo a Rangoni, quale intermediario, a noi suona un po’ beffarda ed è datata 30 luglio 1850:
“si abilita la delegazione politica di Vignola a permettere che i petenti (i barbieri) possano esercitare il loro mestiere fino alle ore 11 antimeridiane con che dalle 10 alle 11 tengano la porta socchiusa”. Non importa analizzare più a fondo il documento che ci interessa per quei nomi e ai fini del collegamento con l’attualità, esso ci dice già tanto.
Il nostro Archivio Comunale non finisce di riservarci sorprese!

mercoledì 18 luglio 2018

PAGINE DI DIARIO / 27

Da “Per piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.

(Anno 1959 – Franca Santunione con la mamma Giovanna Gagliardelli –
sullo sfondo i vecchi giardinetti del Piazzale davanti alla Rocca di Spilamberto.)


Parte dodicesima

[...] Ho incominciato  a fare i conti con la realtà quando mi sono innamorata la prima volta.
Questo accadde nel 1955. Io avevo 19 anni e lui 22. Credo che fosse aprile o maggio… comunque era primavera.
La prima volta che lo vidi era seduto insieme ad altri tre ragazzi sul muretto del giardino della vecchia scuola elementare. Si trovavano lì perché avevano un appuntamento con delle mie amiche [...] venni presentata [...] dopo un po’ li salutai per andarmene via. Il ragazzo che più mi aveva colpita, mi disse: «Perché te ne vai?».
Risposi che andavo al cinema perché era in programma un film che m’interessava vedere.
«Il film puoi vederlo anche un altro giorno. Per questa sera rimani con noi!».
In quel momento un altro ragazzo disse:
«Perché non andiamo a Vignola a prendere un caffè?».
[...] tutti furono d’accordo.
Il ragazzo che mi aveva chiesto di restare si chiamava Marco. Ero ancora indecisa su cosa fare quando Marco mi prese la mano e mi portò  verso due auto parcheggiate poco distante. Marco aprì lo sportello di una di queste e mi invitò  a salire ed a sedere nei posti dietro; lui fece  il giro dell’auto e si sedette al mio fianco, uno degli altri ragazzi salì  al posto di guida . (Più tardi venni a sapere che la macchina era di Marco). [...] eravamo a metà strada quando improvvisamente Marco mi baciò. Rimasi sorpresa e sconcertata. Cercai di respingerlo, ma senza fare della confusione perché non volevo che gli altri capissero cosa stava succedendo visto che avevo capito, da come mi  avevano  parlato poco prima, che alla mia amica seduta sul sedile davanti piaceva Marco. [...]
Mi piace pensare che a portare Marco sulla mia strada sia stato il mio Angelo Custode. Credo che abbia voluto parcheggiarmi in questa storia mentre mi stava cercando per tutta l’Italia l’uomo che avevo sempre sognato. Potevo, è vero, aspettarlo senza frequentare nessun ragazzo, ma c’era anche il rischio che andassi ad infilarmi in una storia dove non era più possibile uscirne.
Perché dico questo?
Perché la mia storia con Marco non poteva avere nessun futuro.
Questo non potevo saperlo; almeno all’inizio, perciò fu una storia d’amore com’è naturale che sia tra due ragazzi ... una storia con le sue gioie, ma anche una storia sofferta.
Questo fu il mio primo colpo di fulmine.
Marco era un bel ragazzo, simpatico, di modi signorili e tanta voglia di divertirsi. D’altra parte non poteva che essere così. Apparteneva anche a quel ceto sociale che ho descritto con la puzza sotto il naso. Questo però non gli impediva di essere socievole con tutti. In poche parole, non si dava delle arie. (Devo confessare che quelli con la puzza sotto il naso non mi erano più tanto antipatici.)
Tutto andò bene per circa un anno e mezzo, poi il mio stato d’animo cambiò... incominciarono le sofferenze. Venni a sapere che nelle sere che non ci vedevamo caricava i suoi amici in macchina (era uno dei pochi che in quegli anni l’aveva) e andavano a fare i bulletti per i vari paesi dell’Emilia. A Marco piaceva molto ballare [...]. Questo mi faceva stare male, ma non gli ho mai detto che ne ero a conoscenza. Questa sofferenza mi aiutò a prendere coscienza della mia storia con Marco. Tutte le volte che ci pensavo molto seriamente finivo col dirmi che non aveva nessun futuro. Questo per due ragioni (ne sarebbe bastata anche una sola).
Una di queste era la sua famiglia. [...] Sapevo che il padre era dottore e aveva una sua attività (aveva una farmacia). Avevano anche la donna di servizio.
Basta questo a far capire come fossimo distanti come ambiente famigliare. Questo in quegli anni aveva ancora molta importanza. Poi c’era la mia famiglia; soprattutto mio padre che col passare degli anni era peggiorato: ora bastava poco per essere ubriaco e sempre più litigioso fuori e dentro casa. Poi c’ero io senz’arte né parte, e naturalmente sempre povera, così mi attaccavo all’orgoglio dicendomi che in un ambiente tanto diverso dal mio mi sarei sempre sentita una povera cenerentola.
Temevo molto che  i suoi genitori, come moglie del figlio, mi avrebbero accettato con pochissimo entusiasmo, così che lottavo disperatamente con la ragione e il sentimento. Finiva sempre per vincere quest’ultimo.
Mi viene in mente quella frase che dice: “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non conosce”.
Difatti ne sono uscita solo quando il Signore, o chi per esso, mi è venuto in aiuto.
Oh, non è che non ci provassi, mi facevo tutti i miei bravi ragionamenti; preparavo ciò che dovevo dirgli, ma poi quando era lì davanti a me diventavo completamente smemorata. [...] sapevo che dovevo arrivare a chiudere questa storia.
Anche mia madre aveva capito che qualcosa mi tormentava: aveva capito anche da cosa dipendeva perché una sera mi chiese se Marco era il ragazzo che sognavo da ragazzina. Ci pensai un attimo, poi risposi di no. Allora disse: «A parte il fatto che quel ragazzo solo un miracolo poteva fartelo incontrare!... ma se pensi che Marco non sia la persona giusta per te, lascialo, prima che sia troppo tardi!». Non mi chiese la ragione di questo mio pensiero, e ne fui contenta. Come avrei potuto dirle che solo l’idea di conoscere i suoi genitori mi spaventava e che lo era ancora di più il pensiero  che un giorno avrei dovuto presentargli mio padre. Era tanta la vergogna che non avevo mai parlato a Marco di mio padre.
La mia famiglia l’avevo tenuta fuori dalla nostra storia. Conosceva mia madre solo perché a volte si erano incontrati per caso, e tra di loro c’era un semplice saluto di circostanza. Con mio padre avevo fatto in modo che non s’incontrassero mai. Questo non fu difficile perché niente in quelle ore lo faceva uscire dal suo regno, cioè l’osteria, ma per maggior sicurezza, se il tempo lo permetteva, l’aspettavo nel piazzale, e lì ci salutavamo quando se ne andava.
Diedi retta a mia madre. Incominciai ad uscire con le amiche quando Marco non veniva. Si andava a passeggiare o al cinema e a volte anche a ballare: questo nella speranza di conoscere un ragazzo che mi piacesse almeno un po’. Niente da fare! Non ce ne era uno che andasse bene. Se poi qualcuno insisteva nel corteggiarmi finiva solo per infastidirmi: credevo che non ce l’avrei mai fatta a togliermelo dalla testa e dal cuore. Invece, questa storia finì... No, non era finita la storia perché questa si trascinò per un po’ di tempo; era finito solo il sentimento che provavo per Marco, e strano a dirsi, improvvisamente com’era cominciato finì e cosa ancora più strana, nello stesso posto! [...]
Questo fatto accadde la prima domenica di giugno del 1958. Quella fu una giornata strana ... Come tutte le domeniche, io e mia madre ci dividevamo i lavori di casa che durante la settimana non eravamo riuscite a fare in quanto lavoravamo entrambe. Tutto andò bene fin verso le dieci, poi incominciai a sentirmi strana; non riuscivo a combinare niente, così che mia madre mi chiese se stavo male? Dissi di no, ma non riuscivo a capire perché fossi tanto agitata![...]
Quella sera avevo, alle 21, un appuntamento con Marco, ma alle venti mi prese una gran voglia d’uscire di casa; questa non era una novità, perché di solito l’aspettavo nel piazzale, ma quella sera sentivo il bisogno di muovermi e stare da sola, nella speranza che questo mi calmasse un po’. Resistetti fin verso le 20,30, poi dissi a mia madre: «Io esco, e se dovesse venire a cercarmi Marco, digli  che sono uscita e non sai dove sono andata, ma che sarò nel piazzale alle nove, o giù di lì».
Mia madre, che in quel momento stava leggendo, alzò la testa, mi guardò da sopra gli occhiali e con una esclamazione disse: «Cosa?... No, no no! Io non voglio assolutamente sapere niente delle tue stupidaggini!!! inoltre io ora  esco, e vado a trovare la mia amica Bruna».
(Veramente mia madre non disse stupidaggini, ma in dialetto usò un termine più colorito).
Senza perdere tempo, si preparò  e se ne andò. Io tentennai un po’, poi uscii.
Nel piazzale trovai le solite amiche; mi fermai giusto il tempo per salutarle, poi me ne andai. Camminando feci tutto il perimetro della parte vecchia del paese, finché mi ritrovai dietro la vecchia scuola elementare col famoso muretto dov’era seduto Marco la prima volta che l’ho visto.
Dall’altra parte della strada, proprio di fronte, c’era la sala da ballo (quella bruttina).
Sentendo l’orchestra suonare, mi prese una gran voglia d’entrare, ma avevo un problema, non avevo con me neanche una lira... Mentre pensavo come potevo fare, vidi  un ragazzo che lavorava nella mia stessa ditta, così gli sono andata a chiedere se mi prestava qualche soldo per entrare.  Me li prestò ed entrai. Mentre facevo questo pensavo di rimanere dentro solo pochi minuti per poi andare all’appuntamento con Marco. Benché avessero aperto da pochi minuti, il locale era già molto affollato. Appena entrai  vidi  una mia amica vicina alla pista da ballo; le andai vicino, la salutai, lei mi guardò e mi dice: «Beh! cosa fai qui?».
«Non lo so», risposi. (Non mi andava di dare delle spiegazioni).
Le chiesi come mai era lì. Rispose che era arrivata da pochi minuti e che non c’erano più tavoli liberi e che stava lì nella speranza di vedere se qualche amica stava ballando,  sperando che avesse un tavolino per ospitarla. Finì un ballo, ne finì un altro, ma di amiche non se ne vedeva una.
Su un lato della pista c’erano degli alberi e sotto a questi i tavolini. La mia amica si attaccò a un grosso ramo e si sollevò un po’, per vedere se qualche amica  fosse  seduta da qualche parte, quando mi disse: «Vedo seduti a un tavolino là in fondo dei ragazzi che conosco! Andiamo a sentire se ci ospitano!».
Le chiesi  se erano ragazzi del paese e lei mi disse di no: disse che li aveva conosciuti un paio di giorni prima nel bar di sua zia [...]. Le chiesi cos’erano venuti a fare a Spilamberto, «Per cercare il petrolio» rispose. La cosa mi sembrò molto strana. Comunque le dissi: «Se vuoi andare, vacci, io non vengo perché mi vergogno». [...] Senza pensarci due volte lei andò  da quei ragazzi che furono contenti di ospitarla, anzi, le chiesero se aveva altre amiche. Disse che c’ero io, ma che non ero andata insieme a lei perché mi vergognavo. Nel frattempo ero rimasta vicino alla pista sperando di vedere almeno un’amica per salutarla e per poi uscire.
Proprio in quel momento sentii dietro di me una voce maschile che diceva: «Signorina buona sera».
Mi girai e mi trovai davanti un bel ragazzo. [...]

giovedì 12 luglio 2018

IL VECCHIO COMUNE SI RACCONTA / 8

Dalle fatiche delle corvées i nomi dei nostri antenati

Seconda puntata



(Scorcio di uno degli ambienti dell’Archivio Storico Comunale di Spilamberto,
quando ancora era collocato nel Municipio locale
e non aveva subito il trasferimento a Vignola.)


Ci ricolleghiamo al documento datato 25 aprile 1616 (“Caramella” pubblicata il 9/05/2018) per offrire ai nostri lettori altri nomi tratti dall’elenco dei “Capi famiglia” residenti nel “Castello di Spilamberto e nella sua Giurisdizione”, o che in essi possedevano beni immobili.
L’interessante documento è conservato nell’Archivio Storico Comunale di Spilamberto e ci offre la possibilità di rintracciare non soltanto le origini di tradizioni e regole di vita quotidiana e pubblica, ma anche le “radici” dei cognomi attuali. Sono risposte a curiosità che spesso vengono raccolte nei “cassetti della dimenticanza”, oscurate dalle molte attrattive del mondo odierno. Noi, invece, abbiamo il piacere, pubblicando la presente “Rubrica”, di offrire la possibilità di scoprire ciò che del passato raccolgono i vostri cognomi.

Ecco altri 42 cognomi che seguono i 40 precedentemente pubblicati:

[...] 41-Baldiserra Besso?   42 -Bartolomeo Simonini   43-Antonio Montagnani  44-Jacomo (“Giacomo”) Greghino  45-Jacomo (“Giacomo”) Sola  46-Battista Ferrari  47-Pietro Berri  48-Guido Gaiani  49-Mattheo Thodeschino (“Matteo Tedeschini”)  50-Benedetto Cavalotti  51-Rinaldo Berselli  52- Giovanni Maria Cavana (“Cavani”)  53-Pellegrino Vinio  54-Francesco Bersello (“Berselli”)  55-Domenico Bersello (“Berselli”)  56-Gherardo Cambio (“Cambi”?)  57-Francesco Caretta (“Carretta”?)  58-Battista Solmo (“Solmi”)  59-Jacomo (“Giacomo”) Martini  60-Bernardino Scachetti (“Scacchetti”)  61-Simono (“Simone”) Caldini  62-Geminiano Grande (“Grandi”)  63-Pitro Baldini  64-Antonio Ferrari  65-Marchino Chioldi (“Chiodi”?)  66-Vergilio (“Virgilio”) Barabochi  67-Gerolamo Ferrari  68-Giovanni Giovetta (“Giovetti”)  69-Sabbadino de Sabadini (“Sabatini”)  70-Giovanni Gallo (“Galli”)  71-Francesco Sacchi  72-Nicolò Sacchi  73-Giovanni Grande (“Grandi”)  74-Bartolomeo Barano (“Barani”)  75-Giovanni Ludovico Quartiero (“Quartieri”)  76-Pietro Parmesano (“Parmeggiani”)  77-Domenico de Grandi  78-Stefano Vignale (“Vignali”)  79-Nicolò Balugani  80-Alessio Martinelli  81-Gerolamo Bellentani  82-Leonardo Cresthoni (“Cristoni”?)  83-Salvador (“Salvatore”) Cavalotto (“Cavalotti”) [...]

Arrivederci al prossimo ed ultimo elenco dei “Capi famiglia”!

giovedì 5 luglio 2018

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 6

Un “Cof” dalla Nina


(Immagine tratta da cartolina di “saluti da Spilamberto”, anno 1965.
La latteria/bar “Nina”, sulla destra, nel prospetto sud dello “Stallone".
Raccolta privata )


La mia percezione di quando ho dato il primo morso a un Magnum, gelato ricoperto, è stata di una copertura croccante che si scioglieva lentamente in una scia vellutata dando spazio a una saporita cremosità rinfrescante. Arrivata all’ultimo pezzetto di gelato ho morso il bastoncino e l’ho fatto scorrere fra i denti per non lasciarne nessuna traccia.
È stata quell’azione banale e spontanea che ha fatto riemergere il ricordo del “Cof”, nome, e prodotto caduto in disuso, dell’attuale ghiacciolo. Il mio preferito era alla menta. Abitando in Via Obici dovevo solamente svoltare l’angolo per arrivare al negozio della Nina, una latteria.
Un negozietto piccolo, un banco in vetro e dietro lei, piccola, minuta e vispa.
Sul banco, da parte, quasi sempre vi erano degli enormi “spumini”, nome effettivo meringhe. Il profumo dominante era di latte, quello che si sente dal casaro quando inizia a scaldarlo per fare il parmigiano.
«Un Cof alla menta», chiedevo. Non lo gustavo tanto, non vedevo l’ora di finirlo perché potevo essere fortunata; se sul bastoncino era scritto “premio” potevo averne un altro gratis, se non avevo quella fortuna lo tornavo a mettere in bocca, mordendo e succhiando il bastoncino, cercando di estrarre fino all’ultimo tutta l’essenza della menta.
Nina la conoscevano tutti, consegnava a domicilio il latte; ogni mattina la sentivi arrivare con la sua rumorosa motoretta, lasciava la bottiglia del latte davanti alla porta e ripartiva. Mi sono sempre chiesta se anche la sua persona avesse quel buon profumo di latte. “Cof” sta per: Cavazzoni Orlando e Fratello, ditta che dal 1952 al 1991, a Lido di Casalecchio, ha prodotto questo ghiacciolo.
Io ora il ghiacciolo non lo mangio più, non assomiglia minimamente a quello dei miei ricordi. La caratteristica del “Cof” consisteva nell’ingrediente principale; il suo sapore e la sua consistenza non troppo ghiacciata stava nell’utilizzare gli sciroppi alla frutta dell’azienda Fabbri, ricchi di frutta e zucchero che lo rendevano più saporito e morbido.
Ora abbiamo la possibilità di creare, a casa nostra, quasi tutti i prodotti dell’artigianato e industria alimentare. La “mia gelatiera” funziona ormai da più di vent’anni. All’inizio i gelati li preparavo con semplici ingredienti, poi, per migliorare la cremosità e consistenza, ho iniziato a utilizzare dextrosio, glucosio, farina di carrube. Per variare preparo i crì-crì, un cono con gelato e una croccante copertura di cioccolato fondente.  Quando ho visto il set per preparare il gelato sullo stecco non ho resistito, l’ho comprato. Il set è dotato di quattro stampi in silicone e un centinaio di bastoncini: riempio lo stampo con il gelato alla panna o alla nocciola, inserisco il bastoncino nell’apposito foro e metto in congelatore a meno 18° per un giorno. Per otto gelati occorre sciogliere almeno 500 gr. di cioccolato da copertura a 45°. Aggiungo 25 gr. di olio di vinaccioli e porto la temperatura a  30°. Metto il cioccolato fuso in un contenitore stretto e alto e lo mantengo in un bagnomaria caldo. Molto rapidamente immergo il “mio Magnum” nel cioccolato!
Conservo quanto ho realizzato su di un vassoio in congelatore.
Inutile dire che il mio gelato sullo stecco è diverso da quelli prodotti dall’industria e molto più gradito.