(Vista panoramica del
Piazzale tanto caro a Laura. Epoca: primi anni Cinquanta del Novecento.
Fotografia: raccolta privata.)
Da “Quel
Piazzale della mia infanzia”, di Laura Bertarelli (stampato nel maggio del
2005).
Parte settima
[...] Quando nacqui io e il mio papà era in guerra, mio
nonno veniva tutte le domeniche, in bicicletta o a piedi, da Castelvetro a
Spilamberto per vedermi. [...]
Come ho già detto, la nonna Bruna era una persona
silenziosa, si aggirava per la casa con la preoccupazione di non disturbare gli
altri, faceva delle sfoglie col mattarello grandissime ed era brava a cucinare, spendeva con parsimonia e
quasi non indossava qualcosa di nuovo per paura di rovinarlo.
Forse questo suo modo di agire derivava dal fatto di avere
passato negli anni giovanili una gran miseria, sempre da lei ricordata, era
però una donna saggia, di gran cuore e dedizione, servizievole e pronta ad ogni
rinuncia, spesso non mangiava il suo
pezzo di torta, lo metteva da parte, e io lo ritrovavo nella mia cartella di
scuola. Amava leggere, nonostante fosse poco scolarizzata, romanzi d’amore e
storie drammatiche.
Non era da tutti capita nel suo modo di stare appartata,
quasi sfuggente, non si lamentava mai, anche se i malanni non le sono mancati,
sapeva ascoltare e consigliare perciò la rispettavo.
Io l’ho apprezzata, capita e amata, forse più da grande che
da piccola perché allora non ero in grado di valutare i tanti sacrifici di cui
era stata piena la sua vita.
Si faceva il pane in casa e il giorno designato, al mattino
presto, i miei nonni si alzavano e con il lievito preparato la sera prima,
cominciavano a lavorare l’impasto con la cosiddetta “grama”, una specie di impastatrice di legno
spinta avanti e indietro con la forza delle braccia.
Preparavano dei pani fragranti, portati a cuocere al forno,
che duravano tutta la settimana. Le merendine non esistevano, una valida
alternativa erano fette di pane con olio e sale o burro e zucchero.
Il nonno Celso aveva un carattere solare, sempre allegro,
raramente l’ho visto arrabbiato, ciarliero e servizievole, parlava reggiano
perché era nato a Scandiano in una famiglia numerosa e povera. Poiché era il
più piccolo mangiava sempre per ultimo, quindi
poco. Alla maggiore età si
arruolò nei carabinieri per sfamarsi.
Raccontava che un giorno passò a trovare sua madre la
quale, disperata, lo implorò di andarsene perché non aveva niente da dargli da
mangiare, nella sua famiglia vivevano in quaranta. Lui era ottimista di natura,
vedeva in tutte le cose il lato positivo e infondeva sicurezza.
Quando venne ad abitare con noi, la domenica andava a messa
alle dieci e mezza nella chiesa di S. Adriano e se incontrava il campanaro
estraeva dal taschino del gilè
l’orologio per controllare l’orario.
Si offriva di aiutare, di andare a far compere, di portare
la carriola col bucato, potevi chiedergli qualsiasi favore e lui con
disponibilità te lo faceva.
Quando gli chiedevano: “Bertarel dove andev?” rispondeva
scherzando: “A vag in dal Mantvan a pler la foia”.
Fischiettava e cantava sempre delle filastrocche che solo
lui conosceva e le ha cantate fino alla morte:
Canta, canta,
Nicolòvòt cà canta quand
an sò, quand a iéra
cin da fàsa, tòtti al
dàn am tulìven in
bràza; adès cà sòun
gnu piò grandèin,
tòtti al dàn al me
stan asvèin.
Purtroppo negli ultimi anni della sua vita aveva perso la memoria, non
capiva ciò che faceva, ma la canzoncina non l’ha mai scordata. [...]