mercoledì 29 aprile 2015

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 18: ROCCA DELLE MIE BRAME

Quarta puntata

Notturno burrascoso in Rocca

Rocca Rangoni, fronte orientale. L'immagine risale presumibilmente a un
periodo precedente il 1892, anno in cui fu alzato il campanile della
chiesa di San Giovanni che qui risulta coperto dalla mole della Rocca.
(Foto da raccolta privata)

1581. Quieta oscurità nel Castello di Spilamberto; il buio soffocante di luglio lo avvolge ed il Panaro fa mancare la sua brezza. Nessun ospite illustre soggiorna in questo momento nel paese. Spilamberto ha perso per qualche tempo i suoi antichi “Signori” ed è dominato dagli Este, tramite un loro Commissario. Soltanto due “sbirri” dormono dietro la porticina che affianca uno dei due ponti levatoi della Rocca. Le chiavi delle porte di ogni accesso sono custodite dall’Ufficiale ducale, che riposa all’interno. Il dominio estense significa disinteresse, incuria, degrado per il paese e anche sorveglianza inadeguata.
Nel buio, all’improvviso, il frastuono di ruote di carri sull’arso terreno battuto e lo scalpitare di cavalli turbano la sonnacchiosa presenza degli “sbirri”, che rivelano la loro inadeguatezza, al di là del disorientamento.
Che succede? Chi irrompe?
Guido!
«È Guido Rangoni!» si urla «Guido! Guido! ».
Il “vecchio Signore”, scortato dai suoi fedeli “ragazzi”, gente forte e pronta a tutto, è tornato.
La resistenza delle guardie ducali è rapidamente annientata. Guido forza l’entrata della Rocca e scardina porte. Sa dove dirigersi. L’obiettivo è certo: oggetti di valore, importanti anche affettivamente; lui sa, lui li conosce.
Mobili pregevoli, armadi di noce, “studioli” conservano ancora ciò che Guido vuole: preziose medaglie di bronzo, d’argento e d’oro; scrigni, armi. È risoluto ad appropriarsi di ciò che della sua famiglia è rimasto e ad offrire una dimostrazione di forza; è uno schiaffo morale  a coloro che gli hanno tolto il feudo, il potere antico di secoli.
L’incursione è breve, quasi fulminea e il buio della notte assorbe ogni traccia del suo allontanamento repentino.
I documenti non ci dicono se ci fu vera resistenza. Di certo la Rocca, tornando ad immergersi nell’afoso silenzio di luglio, non ha tradito il segreto, mentre il Panaro forse ha liberato la brezza, ma solo un timido velo. 

venerdì 24 aprile 2015

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 17: VEDO DOPPIO EPPUR SON SOBRIO - SPILAMBERTO E LA CABALA DEL DUE

Terza parte

 Vi abbiamo lasciato al 4° doppio, ora prendiamo in esame il 5°.
Siamo in tempi più recenti rispetto ai precedenti “doppi”, anche se la “Madonna della Rondine” da lungo tempo è stata oggetto di un culto molto sentito a Spilamberto.


Si tratta di una statua policroma, presente nella chiesa di Sant’Adriano, in cui la Madonna ha in braccio il Bambino, e sul suo polso destro è posata una rondine. Nel 1981, un’esperta chiamata a restaurarla scoprì che lo strato di vari colori era stato aggiunto successivamente alla realizzazione della statua. Si decise allora di ripristinare la figura precedente, e comparve così una pregevole madonna monocroma, dai lineamenti classicheggianti, attribuibile,  nientemeno, che a Michele da Firenze. Era il noto scultore fiorentino quattrocentesco, che aveva partecipato con Donatello alla realizzazione della Porta nord del Battistero di Firenze.
L’artista, dal 1440, lavorò a Modena, dove scolpì l’Altare delle Statuine, destinato al duomo; è probabile quindi che in quel periodo Michele abbia fatto una puntata a Spilamberto ad assaggiare il lambrusco dei Rangoni, lasciandoci questo oggetto prezioso.


Beh, voi direte, allora di due madonne ne è rimasta una, alla quale è stata lasciata sul braccio la rondine. Cosa c’entra la “Cabala del Due?”
Attenzione!
Nella parete opposta della chiesa si trova un’altra madonna, anche quella molto antica. È denominata “Madonna dei socialisti”, perché le sue sembianze sono quelle di una donna del popolo, “una rezdora”, con il Bambino in braccio, con atteggiamento meno rilassato, meno estatico, quasi indaffarato, come se dovesse correre a controllare la pentola che bolle.


Ecco il nuovo DOPPIO!

Ce ne sarebbero ancora da raccontare, ma, per ora, con il numero due ci fermiamo qui... anzi, ce lo andiamo a giocare al lotto?!
Dunque, interpretiamo: i DUE nomi di Spilamberto, le DUE Chiese, le DUE Madonne.
Riuscite a decifrare questi doppi? Avete il manuale?
Forse per fare prima è meglio consultare Internet.
Allora... buona fortuna!

lunedì 20 aprile 2015

NOTIZIE DALL'ARCHIVIO / 12: CLASSI II MEDIE: PRIMAVERA NEL PARCO DELLA ROCCA



Saranno stati il tepore primaverile e la leggera brezza che sfiorava gli alberi del Parco a stuzzicare l’irrefrenabile irrequietezza dei ragazzi. Sta di fatto che non si riusciva a comporre la loro fila per dare il via alla “ola”. Appena in ginocchio si spintonavano scherzosi e si lasciavano cadere abbracciando il tenero verde e assaporando il richiamo della terra. Poi la cosa è riuscita e l’onda delle braccia si è alzata e abbassata varie volte, sotto l’occhio impertinente della videocamera. Vitalità prorompente, desiderio di scherzare.
E poi, ecco il laghetto a forma di cuore: si intravedeva tra gli svolazzanti piumini dei soffioni, che maggiormente erano sospinti dai ragazzi, in gara tra loro per raggiungere per primi quello specchio d’acqua.
La cosa che fa pensare è quanto poco i giovani conoscano il paese. In aula, hanno individuato sulla mappa il Torrione, la Rocca, poco altro, ma non hanno dimenticato l’Atelier di Corso Umberto e la non lontana gelateria. Una ragazza, ahimè, ha denominato San Carlo la chiesa di S. Adriano. Sempre durante i preliminari, in aula, è comparso, sulla lavagna interattiva, lo stemma dei marchesi Rangoni, che dicono di aver già visto nella Rocca di Vignola: sì, per un breve periodo, Vignola è stata governata dai Rangoni. E perché la conchiglia tra righe rosse, bianche e blu?
Un ragazzo risponde: «Per il Panaro». No. La cappasanta, simbolo del pellegrinaggio in Galizia, porta a parlare di Santiago di Compostela, Roma e Gerusalemme, le mete dei pellegrini .
«A piedi?» chiedono.
Allora si parla degli scavi di San Bartolomeo a Spilamberto e dei pellegrini sepolti con conchiglia e bordone che si trovano nel museo.
La loro curiosità fa chiedere come mai si siano conservate le conchiglie.
Le domande degli alunni aprono sentieri imprevisti: ogni classe reagisce in modo diverso di fronte alle stesse notizie.
Occupati ad ascoltare le preferenze del loro immaginario di fronte a varie foto di castelli, quasi ci si dimentica di chiarire che il Castello di Spilamberto non è la Rocca, ma il territorio fortificato, un luogo cinto da mura: questo si intendeva nel Medioevo, non quello di Disney; lo testimoniano anche Castelvetro, Castelnuovo R. e Castelfranco. Le parole hanno più significati che cambiano nel tempo.
In cammino verso la Rocca, guidati dagli alunni incaricati di individuare gli edifici storici, una ragazza si ricorda dell’acetaia solo a metà di corso Umberto. Il “portico di Bondi” e l’antica abitazione dei Rangoni sono per loro una topografia sentimentale, sono diventati “il muretto degli innamorati”. Viene detto per scherzo: «Ma ora non ci si innamora più!». Alcune ragazze negano decisamente l’affermazione!
Sollecitati, osservano poi, e riconoscono, i merli dello “Stallone”, rigorosamente ghibellini; vedono lo stemma sul balcone del “Vecchio municipio”, ma non sanno decifrarlo: è il simbolo del Comune di Spilamberto! La prossima volta dovremo probabilmente iniziare dall’immagine del biancospino!
Nella “Caccia al tesoro”, il ritrovamento della R, in terracotta, simbolo dei Rangoni nella Rocca, risulta un po’ laborioso; si son dati da fare, ma la cercavano dove non era. Il ragazzo che l’ha individuata per primo si è attirato le indispettite esclamazioni dei compagni. Soltanto fortuna!
E poi nel Cortile d’Onore, ancora la brezza del Panaro (la stessa che nelle “Quattro arie” accarezza le chiacchiere dei presenti) sollecita piacevolmente le osservazioni dei ragazzi, che cercano di individuare quel passato che, nelle pietre delle pareti esterne, ci racconta i tormentati mutamenti di questo nostro importante monumento storico.
E in conclusione? Speriamo che da questa escursione i ragazzi possano conservare una nuova immagine della loro Spilamberto, di quel paese che sembrano conoscere soltanto nelle apparenze!

sabato 18 aprile 2015

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 16: VEDO DOPPIO EPPUR SON SOBRIO: SPILAMBERTO E LA CABALA DEL “DUE”

Seconda parte

 Vi abbiamo lasciato con il “3° doppio”, precisamente il giorno 16 marzo 2015, parlando delle “DUE anime” che hanno sempre accompagnato Spilamberto nel corso della storia. Ci eravamo avvicinati al secolo XIX, ma ora facciamo un salto indietro, al secolo XIII, e diamo inizio alle considerazioni sul “4°  doppio”.

4°. Quando il Comune di Modena, nel 1210, fa costruire il Castello di Spilamberto, e il territorio diventa paese abitato, il Vescovo della città si affretta ad edificare dentro il Castello la Chiesa di San Giovanni Battista. L’Abate di Nonantola si ribella, non vuole una chiesa del Vescovo sul territorio di sua pertinenza: ne nasce una clamorosa lite, per la cui soluzione vengono coinvolti l’imperatore Ottone IV e il papa Innocenzo III.
Dopo quattro anni di dispute, Innocenzo III, con un suo documento, risolve la questione: stabilisce che al Vescovo rimanga la Chiesa edificata per suo volere, e che l’Abate si costruisca la sua.
Non basta: il Papa impone pure che il paese sia diviso in due parrocchie, una per entrambi i contendenti.
Le conseguenze?... Da quel momento il paese risulterà diviso in due parti dalla strada centrale, (l’attuale Corso Umberto I), che segnerà il confine di competenza delle due Parrocchie.
Sorse così la chiesa di Sant’Adriano, proprio di fronte a quella di San Giovanni, quasi DUE contendenti “l’uno contro l’altro armati”, rispettivamente il Prevosto e l’Arciprete.
La divisione modellò i rapporti fra i parrocchiani, che “giocavano” la loro vita quotidiana e religiosa come DUE squadre nemiche.
Alla fine dell’Ottocento, troviamo a reggere le Parrocchie DUE personaggi oltremodo focosi: l’arciprete Don Muratori (San Giovanni) e il prevosto Don Quatrini (Sant’Adriano).
Le scaramucce erano ricorrenti, d’ordine religioso o d’ordine mondano, come quella di fornire gli arredi più lussuosi ai due edifici sacri.
La contesa non trovava sosta, fino al punto in cui don Muratori, “partendo con lancia in resta”, fece apporre una scritta in latino sul lato sud della sua Chiesa, tuttora visibile: “Chiesa della plebe di Spilamberto dedicata a Giovanni precursore divino” (Chiesa della plebe, cioè plebana, quindi la più antica e prestigiosa).




Don Quatrini reagì. Fece scrivere sulla porta d’ingresso di Sant’Adriano: “Più antica chiesa parrocchiale di Spilamberto dedicata a Sant’Adriano III Papa ”.



Il prestigio dell’antichità non si poteva lasciare all’avversario.
Testimoni di questa duplice ferita rimangono le scritte, ancora ben visibili per chi percorre le due strade principali del paese.

Arrivederci alla lettura della Terza parte di “Vedo doppio”, per affrontare ancora la “cabala del DUE” spilambertese!

lunedì 13 aprile 2015

NOTIZIE DALL'ARCHIVIO / 11: CLASSI II MEDIE: LA MARCHESA BIANCA RANGONI E LA VERTIGINE DEGLI OPIFICI


Il Canale San Pietro che scorre dietro all’ex mulino Rangoni. Dalle sue acque traeva origine il “Canalino castellano”, utile alla lavorazione del “filo da seta” all’interno dell’opificio impiantato dalla marchesa Bianca.
(Foto: raccolta privata)


«Questi incontri servono a farci conoscere il paese», la ragazza con il velo è la prima a rispondere. «Ci vengono dette tante informazioni su Spilamberto, a casa ne parliamo con i genitori, le approfondiamo, poi le trasmetteremo ai nostri figli» dice un altro «è un modo interessante per alternare le lezioni frontali con uscite nel paese ».
Sono alcune considerazioni dei ragazzi sull’utilità dei nostri incontri e il loro giudizio è decisamente positivo su questa esperienza.
Oggi si parla di opifici, le attività industriali che Bianca Rangoni riattiva o impianta per la prima volta agli inizi del ‘600, avviando la proto industrializzazione di Spilamberto.
Questo argomento ci porta alla vertigine storica; un continuo andirivieni nel tempo tra ieri e oggi: il papiro, la carta, la corteccia vegetale e gli stracci. È così che parlando del “Follo della carta” si parte dalla raccolta differenziata di oggi, mentre un’idea della tecnologia di un tempo ce la danno le immagini dell’Enciclopedie di Diderot e d’Alambert di fine ‘700. Per di più il termine “folloni”, i martelli che pestavano gli stracci per ridurli in poltiglia utilizzabile, corrisponde ad un cognome di oggi.
È la vertigine della storia che ci pervade e ci rimanda ad un paese ricco d’acqua, acqua che ancora c’è e, anche se oggi camminiamo sopra di essa, un tempo muoveva i meccanismi della Cartiera, serviva la Filanda e la Concia delle pelli.
La foto di un tempo ci riporta il “Canalino castellano” scoperto, e si affacciano verso di noi i visi in posa di donne della metà del ‘900 che sciacquano i panni. E c’è pure la foto del ponte sul Canale Diamante che lambiva la “Concia”, controllato severamente sullo sfondo da un Torrione con la copertura di un tetto  che denuncia la datazione: la II Guerra mondiale non era ancora scoppiata.
La Filanda: matasse di seta, bruchi, bozzoli/filugelli, farfalle, 14 ore di lavoro di donne e bambini con le mani nell’acqua bollente, il “Pavaione”. C’è anche una brutta storia con l’immancabile vittima: il povero “Ugolino filatogliere”, bolognese, impiccato per vendetta. Si tratta dei segreti della produzione industriale, i problemi della concorrenza e ... di nuovo il presente: lo stesso capita con le produzioni della  Apple e la ricetta della torta Barozzi di Vignola.
Un ragazzo svela subito dove si trova la foto che ritrae donne al lavoro nella Filanda, sotto gli occhi di un burbero padrone. Lo “Zucchero filato”, il nome del bar, richiama suggestivamente l’uso a cui era adibito il locale. Il mutamento che ha apportato la storia è richiamato da una piacevole traccia visiva.
Bianca ha riattivato anche la “Concia delle pelli”. Ci si sofferma tra l’altro, oltre che sulla tecnica di lavoro, anche sulle terribili condizioni igieniche a contatto con le vasche, la puzza, il salnitro e le “Gride”, che di quest’ultimo proibivano la vendita al di fuori del “Castello” e della sua “Giurisdizione”.
Una ragazza ci informa che vasche simili per la lavorazione delle pelli le ha viste in Marocco. Immediatamente una diapositiva, nella lavagna interattiva, conferma ed illustra il suo commento.
«È sufficiente consultare i documenti e studiarli per ricostruire la storia? ».
Rivolgiamo la domanda ai ragazzi  sul finire dell’incontro.
«Occorre anche immaginazione, creare ipotesi, individuare i significati; controllare l’attendibilità dei documenti: veri o falsi? Rivolgersi, inoltre, a più fonti, chiedere anche ai nonni. Soprattutto: cercare e approfondire sempre».
Sono queste le prime risposte degli alunni, troncate, purtroppo, dal suono della campanella. Non sembrano bastare: il futuro ci offrirà l’opportunità di riparlarne.

venerdì 10 aprile 2015

UNO STRAPPO NELLA MEMORIA / 2: UNO MNÈMONE A SPILAMBERTO



L’Odissea racconta.
Ulisse, ritornato ad Itaca, per non farsi riconoscere dai Proci finge di essere un mendicante vagabondo e chiede di partecipare alla gara dell’arco. Penelope, infatti, sposerà chi sarà in grado di scoccare con l’arco di Ulisse la freccia che attraverserà senza intoppi le dodici scuri predisposte per la sfida.
Eurialo, il più arrogante dei Proci, rivolgendosi ad Ulisse così si esprime:
«Tu non mi sembri un uomo esperto di gare, ma piuttosto uno che vaga per i mari in una nave dai molti remi, che comanda i marinai, che si ricorda del carico, che pensa alle merci e ai guadagni».

Nel mondo dell’oralità, che precede quello della scrittura, sulle navi c’era chi doveva ricordare, il suo compito era quello di avere in mente l’elenco delle merci, del carico: lo MNÈMONE, una specie di “bolla di carico” umana. Alcuni antichi affermarono che i Fenici inventarono la scrittura proprio per ovviare alla difficoltà di questo compito.
Le parole di Eurialo esprimono per la prima volta il concetto dello mnèmone nell’Odissea.
In alcune città, le responsabilità di questo particolare personaggio si concentravano in un magistrato a cui erano affidati, ad esempio, compiti istituzionali riguardanti la conservazione delle informazioni rilevanti in ambito tecnico, come memorizzare il calendario liturgico.
La figura dello mnèmone compare anche nei racconti mitologici: Teti, madre di Achille, proibisce al figlio di uccidere un certo Tenes, perché generato da Apollo. Un oracolo, infatti, aveva predetto la fine di Achille il giorno in cui avesse ucciso un figlio del Dio. Teti mise al fianco di Achille uno mnèmone, con il compito di preservarlo dal destino di morte annunciato. Lo schiavo si distrasse e Achille poi morì.
Nel mondo antico le risorse degli schiavi permettono di utilizzare una persona, lo mnèmone, come supporto alla memoria. Noi oggi, più semplicemente, utilizziamo metodi diversi: a livello personale facciamo un nodo al fazzoletto, mettiamo un pezzo di carta  nell’anello e così via; più ampiamente, a livello istituzionale ci avvaliamo di un sorprendente mnèmone, l’archivio.
E non aggiungiamo altro.

venerdì 3 aprile 2015

NOTIZIE DALL'ARCHIVIO / 10: CLASSI II MEDIE: TRA "DESERTO", COMETE E TORTURE

Un applauso dei ragazzi ha concluso la lettura del diario dell’incontro precedente, già pubblicato sul blog dell’Associazione “N.A.S.Co. a Spilamberto".
La lezione, con proiezione e fotocopie di documenti alla mano, è poi iniziata, con la decifrazione di una lettera del 1594, di un certo Commissario giunto a Spilamberto, Giovanni Armati.
Individuare le parole ha creato qualche difficoltà, soprattutto per la grafia tardo cinquecentesca. Un volenteroso ragazzo ha segnato con la bacchetta parola per parola, ma dalla sedia, sulla quale era salito per indicare con più precisione, ne è sceso piuttosto provato. Poi l’amarezza per la descrizione di una Spilamberto “diserta”, abbandonata, esposta alle scorrerie dei delinquenti, con cadaveri insepolti nelle strade e preda di cani.
Ma come? Dopo aver viaggiato lungo i possedimenti dei Rangoni, perfino in Francia, a Pernes les Fontaine, segno di ricchezza e di potere, un loro feudo lasciato degradare così?
No, non era colpa loro; l’estremo stato di abbandono era conseguenza di un periodo di dominio estense sul Castello di Spilamberto e del loro disinteresse: gli Este erano lontani, nella corte di Ferrara.
Poi, sulla parete chiara dell’Aula Magna, è apparsa, quasi magicamente la cometa di Halley, la diapositiva che segnava l’arrivo di Bianca Rangoni e la sua assunzione di governo.
“Una sera di gennaio dell’anno 1607 un segno premonitore giunse dal cielo: una cometa brillava verso est”.



Certamente i ragazzi non la dimenticheranno, infatti dopo il nome e l’immagine è iniziato l’intervallo.
Subito sono cambiate le geometrie dell’Aula. Sedie disposte in circoli si sono affollate di panini, bibite, patatine e cibi vari. Mandibole all’opera si sono mescolate a chiacchiere in libertà, rigorosamente contemporanee!
Alla ripresa, Bianca ha mosso lo stupore per il delinearsi del suo personaggio, una “Signora feudale” con potere assoluto, di “banno”, che sfuggiva all’immagine di “oggetto di scambio”, quale nell’antichità la donna veniva considerata. Bambine a volte promesse già a otto anni ad un attempato, sconosciuto e sgradevole uomo, ma ricco! A questo servivano le figlie femmine delle famiglie nobili.
Una ragazza chiede: «Ma veramente?».
E immediatamente il pensiero ritorna alla notizia della poca pulizia delle persone.
Quindi uomini estranei e vecchi, per una bambina o ragazzina, che nemmeno si lavavano!
Lo stupore dei visi degli alunni esplicita le loro sensazioni.
E si ritorna a Bianca, le sue regole imposte, le “gride”, la “Colonna rossa”, le punizioni per chi non obbediva, e i famosi, terribili, “tratti di corda”, con mani legate dietro la schiena per issare e torturare il criminale.
L’attenzione tesa creatasi viene interrotta improvvisamente da una ragazza che ci stupisce: riesce a far girare braccia e mani unite dalla schiena intorno alla testa!
Le punizioni imposte dalle Gride della Marchesa su di lei non avrebbero avuto effetto! Almeno quello più terribilmente doloroso e invalidante!
Lo stupore per quella dimostrazione che strappa spontanee esclamazioni chiude con allegria il racconto, che nel corso di due ore ci ha riportato a quel lontano periodo in cui la nostra Spilamberto da “deserto raccapricciante” si stava trasformando in industriosa e ricca capitale di un feudo ancora per secoli governato dai Rangoni.