Corriere
della Sera: nella presentazione del nuovo libro del filosofo Stefano Zecchi
leggiamo che “il progresso e il
globalismo hanno danneggiato la tradizione intesa come radicamento in una
storia che costituisce la tua identità”;
questo fenomeno “ha portato l’Occidente ad essere sì un Paradiso, ma dal ventre
molle, a essere una grande luminaria per il resto del mondo ma, in realtà, una
piccola bottega in totale abbandono verso la propria tradizione, succube di
modelli di sviluppo che non erano i suoi propri.”
Cosa ha a che fare questo con Spilamberto e con il Natale?
Il collegamento è dato da una poesia natalizia pubblicata
alcuni anni fa da Silvio Cevolani, che introducendola scriveva:
“Per
carità, non mi lamento, la vita è certamente migliorata. Ma questa società di
impiegati e montatori che tutti la sera guardano la stessa televisione, tutti
sgranocchiando pop-corn che arriva da chissadove grazie a mirabili conservanti,
ebbene, questa società mi lascia perplesso. A volte mi dà l'impressione di un
motore che gira a vuoto; sempre mi trasmette un senso di fragilità e la netta
sensazione non di un perfezionamento ma di una non necessaria frattura nei
riguardi del modo di vivere che abbiamo seguito per secoli. Ed ero preso da
queste riflessioni quando, la vigilia di Natale del 1998, tornando da un
malinconico giro in una Piazza semideserta, scrissi questi pochi versi…”
Ed ecco
dunque i versi di Silvio, con i quali facciamo a tutti i nostri lettori i
migliori auguri di un sereno Natale.
Long tota la Piaza, fra
Roca e Turoun,
l’é tota ‘na lus, l’é
tot un lampioun.
Ch’el quater buteigh gli
han fat la vedreina
coun lus, musicata e na
man d’purpureina.
I ein poch qui chi
pasen, i ein svelti e sicuri,
e seinza fermeres is
disen: «Avguri!»
I ein poch: tot chi eter
i ein bele a la Cop
chi coumpren pandori,
champagne e culotte.
Turnessa al Bambein in
ste mond ed lampioun
al post ed ‘na stala igh
darevn un scatloun.
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