mercoledì 24 maggio 2017

PAGINE DI DIARIO / 18


(Vista panoramica del Piazzale tanto caro a Laura. Epoca: primi anni Cinquanta del Novecento.
Fotografia: raccolta privata.)


Da “Quel Piazzale della mia infanzia”, di Laura Bertarelli (stampato nel maggio del 2005).


Parte settima

[...] Quando nacqui io e il mio papà era in guerra, mio nonno veniva tutte le domeniche, in bicicletta o a piedi, da Castelvetro a Spilamberto per vedermi. [...]

Come ho già detto, la nonna Bruna era una persona silenziosa, si aggirava per la casa con la preoccupazione di non disturbare gli altri, faceva delle sfoglie col mattarello grandissime ed era  brava a cucinare, spendeva con parsimonia e quasi non indossava qualcosa di nuovo per paura di rovinarlo.
Forse questo suo modo di agire derivava dal fatto di avere passato negli anni giovanili una gran miseria, sempre da lei ricordata, era però una donna saggia, di gran cuore e dedizione, servizievole e pronta ad ogni rinuncia, spesso non mangiava il  suo pezzo di torta, lo metteva da parte, e io lo ritrovavo nella mia cartella di scuola. Amava leggere, nonostante fosse poco scolarizzata, romanzi d’amore e storie drammatiche.
Non era da tutti capita nel suo modo di stare appartata, quasi sfuggente, non si lamentava mai, anche se i malanni non le sono mancati, sapeva ascoltare e consigliare perciò la rispettavo.
Io l’ho apprezzata, capita e amata, forse più da grande che da piccola perché allora non ero in grado di valutare i tanti sacrifici di cui era stata piena la sua vita.

Si faceva il pane in casa e il giorno designato, al mattino presto, i miei nonni si alzavano e con il lievito preparato la sera prima, cominciavano a lavorare l’impasto con la cosiddetta  “grama”, una specie di impastatrice di legno spinta avanti e indietro con la forza delle braccia.
Preparavano dei pani fragranti, portati a cuocere al forno, che duravano tutta la settimana. Le merendine non esistevano, una valida alternativa erano fette di pane con olio e sale o burro e zucchero.
Il nonno Celso aveva un carattere solare, sempre allegro, raramente l’ho visto arrabbiato, ciarliero e servizievole, parlava reggiano perché era nato a Scandiano in una famiglia numerosa e povera. Poiché era il più piccolo mangiava sempre per ultimo, quindi  poco.  Alla maggiore età si arruolò nei carabinieri per sfamarsi.
Raccontava che un giorno passò a trovare sua madre la quale, disperata, lo implorò di andarsene perché non aveva niente da dargli da mangiare, nella sua famiglia vivevano in quaranta. Lui era ottimista di natura, vedeva in tutte le cose il lato positivo e infondeva sicurezza.
Quando venne ad abitare con noi, la domenica andava a messa alle dieci e mezza nella chiesa di S. Adriano e se incontrava il campanaro estraeva dal  taschino del gilè l’orologio per controllare l’orario.
Si offriva di aiutare, di andare a far compere, di portare la carriola col bucato, potevi chiedergli qualsiasi favore e lui con disponibilità te lo faceva.
Quando gli chiedevano: “Bertarel dove andev?” rispondeva scherzando: “A vag in dal Mantvan a pler la foia”.
Fischiettava e cantava sempre delle filastrocche che solo lui conosceva e le ha cantate fino alla morte:

Canta, canta, Nicolòvòt cà canta quand
an sò, quand a iéra
cin da fàsa, tòtti al
dàn am tulìven in
bràza; adès cà sòun
gnu piò grandèin,
tòtti al dàn al me
stan asvèin.

Purtroppo negli ultimi anni della sua vita aveva perso la memoria, non capiva ciò che faceva, ma la canzoncina non l’ha mai scordata. [...]

Nessun commento:

Posta un commento