mercoledì 31 gennaio 2018

PAGINE DI DIARIO / 23

Da “Quel Piazzale della mia infanzia”,
di Laura Bertarelli (stampato nel maggio del 2005).

(Renato Bertarelli - papà di Laura - durante il servizio militare in Libia, 1943,
prima di essere catturato e trasferito in Inghilterra come prigioniero.)

Parte nona

[...] Provato da tre anni di guerra in Libia, fu preso prigioniero in Tunisia nel giugno del 1943 e internato nel campo di prigionia a Bona in Algeria per diciotto mesi, portato poi in Inghilterra dove  rimase fino al 1946.
Fu proprio in quel periodo che di lui non si ebbero notizie.
Nella ritirata di 2000 km, aveva dovuto abbandonare tutto quello che portava con sé, anche le lettere e le fotografie che mia madre gli aveva inviato, ne tenne solo due.
La posta non arrivava e per un anno e più non si sapeva dove fosse finito, solo più tardi si imparò che era prigioniero degli inglesi. Dopo questo lungo silenzio di notizie, un giorno, mentre ritornava al campo, vide il tenente che lo aspettava sventolando due lettere, di corsa lo raggiunse, una era della moglie e l’altra dei genitori. Ancora oggi quando lo racconta si commuove.
Quasi nove anni di guerra è stato obbligato a fare, povero papà, una buona parte della sua giovinezza.
Io lo conoscevo in fotografia, sempre me ne parlavano, e mi dicevano che quando sarebbe tornato mi avrebbe portato una bambola e che avrei dovuto abbracciarlo forte, perché era il mio papà, che mi voleva molto bene e in più poteva anche avverarsi l’ipotesi più nera che non tornasse, come  purtroppo a molti è capitato.
Nel marasma e nella crudeltà che la guerra porta con sé, dirò che gli è andata  bene. Erano allo sbando, la fame li tormentava, toglievano dal pane e dal rancio i vermi, quando bombardavano il loro rifugio erano delle buche nella sabbia.
Un giorno essi credettero di essere finiti in un’imboscata, in tre seguirono un libico per tre Km nel deserto per avere un po’ di generi alimentari in cambio di vestiario.
Raggiunsero un accampamento, si videro circondati, invece li accolsero benevolmente e dettero loro del cibo, la fortuna li aveva assistiti, se fossero stati uccisi non li avrebbero più trovati.
Mio padre faceva parte del carro officina addetto alla manutenzione.
In Somalia distillavano l’acqua lungo il fiume Giuba infestato dai coccodrilli, un suo commilitone scivolò nell’acqua e in un attimo, prima che potessero intervenire per aiutarlo, un coccodrillo lo sbranò.
Ne ha passate e viste di tutti i colori, ha vissuto nel pericolo per anni, ha sofferto la fame, ha preso dissenterie e malaria, ha visto impazzire e morire molti compagni d’armi, ma il Signore ha voluto che nell’aprile del 1946 ritornasse a casa. [...]

giovedì 25 gennaio 2018

POLVERE D’ARCHIVIO, POLVERE DA SPARO: NUOVA RUBRICA


 (Stabilimento S.I.P.E., Palazzina degli uffici e dei laboratori.
Foto: archivio “Gruppo di Documentazione Vignolese, Mezaluna – Mario Menabue”.)


Perché una nuova rubrica?
Tutti conoscono la “S.I.P.E.”, ma non tutti forse sanno che prende questo nome, dopo il 1900, una fabbrica di polveri presente da secoli a Spilamberto.
Vari studiosi affermano che la prima Polveriera è stata costruita nel 1510, ma non citano nessun documento che provi tale notizia. Comunque, certamente essa è stata attiva quasi ininterrottamente vari secoli, fino a diventare privata, seguendo le vicende storiche del “Ducato estense” prima, ed in seguito del nostro paese.
Ora i fabbricati della “S.I.P.E.” giacciono in progressivo degrado, abbandonati e, dopo una breve parentesi di accese polemiche, nessuno ne parla più. Siamo soltanto a conoscenza che vi si svolgono raduni di gruppi per scontrarsi in battaglie simulate.
Perciò N.A.S.CO., con questa rubrica, vorrebbe innanzitutto diventare uno stimolo per riportare in primo piano, agli occhi delle forze politiche, il problema del restauro e del riutilizzo di questo importante documento di archeologia industriale.
La fabbrica di polveri ha certamente dato lavoro al paese, ma ha causato anche tanti lutti e non c’è chi di noi non abbia subito la perdita di un parente, di un amico o di un conoscente.
Le “Caramelle” sulla Polveriera serviranno, perciò, anche ad offrire l’occasione per ricordare simbolicamente quelli che vi hanno perso la vita. Di alcuni di loro racconteremo la dinamica dell’incidente.
Iniziamo dunque un piccolo viaggio nella storia della Polveriera.

venerdì 19 gennaio 2018

IL GIGANTE SPINALAMBERTO “BERTO PER GLI AMICI” / 3° (seconda parte)

Le storie del “doppio”: “Il ritratto di Dorian Gray”,
raccontato da Giulia Lorenzoni (seconda parte).



Immagine di Fabio Amadessi


[...] «Una sera, mentre aspettava Dorian per uscire, Basil passeggiava inquieto su e giù per la casa. Da alcune settimane aveva cominciato a notare strane coincidenze a teatro, nei bar e nei locali che i due frequentavano insieme. Una cameriera aveva rifiutato di servirli e un domestico aveva finto di non vedere Dorian mentre attendeva che il suo cappotto fosse preso in custodia. Sul giornale, aveva pure letto che una giovane attrice che avevano conosciuto si era gettata nel fiume. Non c’erano più tanti sorrisi che accompagnavano l’arrivo del giovane dai capelli dorati.
Mentre camminava e rifletteva, inciampò all’improvviso nel ricordo del ritratto che aveva dipinto con tanto amore per Dorian. Sulla parete, infatti, non rimaneva che un’ombra leggera, come quella che si tingeva in quel momento sul volto di Basil, come un presagio. Salì in fretta le scale verso la soffitta, il cuore pulsava impazzito. Usando qualche chiodo e un cacciavite di servizio forzò la porta che lo separava dal quadro e da tutte le sue domande».
I bambini si misero le mani sugli occhi come non volessero vedere la conclusione della storia.
«Quando i domestici accorsero, dopo le urla e il trambusto, trovarono il cadavere di Basil che giaceva in un angolo, con gli occhi spalancati dal terrore. A terra, accasciato sul pavimento, c’era il corpo curvo e grinzoso di un uomo con addosso i vestiti di Dorian e un pugnale sfuggito dalla mano rugosa. La tela del quadro nascosto anni prima era al centro della sala, e uno squarcio svelava la verità».
I bambini si ritrassero di colpo dalla pozzanghera.
«Gli occhi di Basil avevano scoperto l’orribile incantesimo. La sua arte aveva aiutato Dorian a sfidare la natura, a giocare con il bene e con il male, a vivere tutti gli entusiasmi e gli eccessi della giovinezza senza che il suo corpo se ne accorgesse. Il ritratto, come uno specchio magico, aveva patito i segni del tempo e le macchie di ogni colpa di cui il giovane non si era curato, di ogni crimine che aveva commesso».

I bambini guardavano il riflesso del vecchio Berto luccicare nella pozzanghera e inconsapevolmente percepivano che in fondo la natura vince sempre. Regala la bellezza per poi farla evaporare. La meraviglia vera rimane lassù, fra le nuvole, pronta per il prossimo temporale.

mercoledì 10 gennaio 2018

IL GIGANTE SPINALAMBERTO “BERTO PER GLI AMICI” / 3° (prima parte)

Le storie del “doppio”: “Il ritratto di Dorian Gray”,
raccontato da Giulia Lorenzoni (prima parte).


(Immagine e disegni realizzati da Fabiano Amadessi)


 Il temporale aveva lasciato enormi pozzanghere d’acqua limpida che il sole di mezzogiorno faceva luccicare. Mentre i bambini giocavano con le loro immagini riflesse, apparendo e scomparendo nello specchio di qualcun’altro, Berto pensava a quel giovane di nome Narciso che, innamoratosi del suo stesso volto nello stagno, dimenticò il pericolo e la corrente se lo portò via. Chiamò a raccolta i bambini davanti alla pozza più grande e raccontò loro un’altra storia di terribile bellezza.
«Quando guardate me», disse accarezzandosi la faccia con tutte le sue rughe «cosa vedete?».
I bambini, spintonandosi un po’ per l’imbarazzo, risposero in disordinato coro: «Un vecchio!».
«Eh, sì, temo proprio di sì, ragazzi», rispose Berto con un sorriso sereno «e voi che siete fanciulli, e avete ancora tutta la vita davanti… guardatevi», disse indicando l’enorme cornice d’acqua «non vi chiedete certo cosa significhino stanchezza e rughe sul viso».
I bambini sbirciavano attorno, vagando fra gli alberi e il sole.
«C’era una volta un bellissimo giovane chiamato Dorian Gray che ammirava il suo ritratto e si chiedeva cosa ne sarebbe stato di tutto quello splendore e di quella gioventù, quando il tempo avesse fatto il suo corso».
La vita, pensava Berto guardando le pozzanghere, i giorni e le ore ci asciugano come l’acqua di un temporale. Ma non lo avrebbe detto ai bambini.
«Ogni giorno che passava, il quadro ricordava a Dorian quanto fuggevoli fossero la bellezza e la spensieratezza della gioventù».
I bambini si guardavano in coro.
«La paura di perdere tutto quel piacere lo spaventava a tal punto che si mise a piangere davanti al ritratto, esprimendo tutto il suo desiderio: che per lui il tempo si fermasse e che solo la sua immagine dipinta potesse invecchiare».
Si udì l’eco di un tuono: il temporale singhiozzava in lontananza.
«E fu proprio così, bambini», disse Berto «la natura quel giorno si zittì, e Dorian riuscì a fermare il tempo».
«Gli anni passavano, i volti degli amici di Dorian si piegavano ai giorni, mentre il giovane adorato da tutti splendeva con la sua bellezza intatta».
«Era rimasto uguale al quadro?», chiese una bambina.
«Eh, il quadro», sospirò Berto «il quadro, piccoli amici miei, scomparve. O meglio, nessuno lo vide più e Dorian spiegò sbrigativo che lo aveva portato in soffitta perché non voleva più averlo intorno».
I bambini scrutavano il mistero negli occhi di Berto.
«Nemmeno a Basil, il fidato amico di Dorian e l’artista che gli aveva fatto il ritratto, era permesso di accedere al solaio».
«Ma perché?», chiese un bimbo alto come un cespuglio.
«Perché la bellezza può essere pericolosa, per chi la possiede e per chi la ammira». Berto ripensò al giovane Narciso e sospirò.
«Per il resto», continuò a raccontare «Dorian usciva sempre più spesso di casa, soprattutto la notte». 
«E dove andava?», sollecitò un bambino.
«Andava in giro per club esclusivi con Basil e altri amici, e la gente lo conoscevano come il distinto gentiluomo col volto di fanciullo. La sua presenza veniva celebrata e la sua bellezza impeccabile faceva innamorare tutti».
«Davvero era così bello?», chiesero all’unisono due bambine.
«Lo era. Tanto da far tremare», dissero gli occhi di Berto. [...]

Arrivederci alla prossima settimana per la “seconda parte”!

mercoledì 3 gennaio 2018

SPILAMBERTESI DA RICORDARE / 8°: REMO DRUSIANI

Il ricordo di un giovane innovatore spilambertese:
Remo Drusiani (1921-1946)



(1939? 1940? – Remo Drusiani, in alto a sinistra, con numerosi Aspiranti ed Effettivi
di A. C. dell’Associazione di Spilamberto –
 Fotografia tratta dalla pubblicazione da cui si sono state raccolte le notizie per la stesura della presente “Caramella”.)




Raccogliere le foglie degli olmi e dei gelsi, tagliare il mais da foraggio, voltare l’erba falciata, fare la guardia davanti ai buoi: sono attività che fanno parte della vita di un contadino.
Chi svolge tali lavori fin dalla tenera età è un bambino, nato in una vecchia casa di S. Vito, decimo di 11 figli. Remo Drusiani nasce il 9 giugno 1921 in una numerosa famiglia rurale, quelle di una volta, con solide radici religiose che si trasmettono a lui. A convincere il padre del valore della scelta del figlio, quella di seguire la sua vocazione, è l’arciprete don Bondi. A 11 anni, al termine delle elementari, Remo chiede di andare in Seminario a Nonantola per diventare sacerdote. Le spese dei vestiti, dei libri e della retta seminariale vengono sostenute da alcune generose signore.
I risultati degli studi nei primi due anni sono brillanti; tra i suoi interessi, oltre alle materie religiose, vi è l’italiano (il suo insegnante è don Elio Monari) e il latino. Nelle omelie, che scrive come esercitazioni scolastiche, sottolinea l’importanza della meditazione ed insiste sulla necessità di educare i giovani. Si tratta di riferimenti che orienteranno sempre la sua vita. Nel corso degli studi conosce due spilambertesi: Glauco Graziati e Luigi Campagnoli che diventeranno sacerdoti.
Ed eccolo, nelle pause estive dedicarsi ai ragazzi del paese. Assieme agli altri seminaristi li riunisce, dopo la visita in chiesa li porta sulle rive del Panaro: nascondino, guardia e ladri, gioco della palla negli spazi erbosi, ma scalzi per non consumare le scarpe.
Il Gesù a cui lui pensa è quello che dice “Lasciate che i fanciulli vengano a me”.
Quando, nel maggio 1939, nel Seminario modenese riceve la notizia della madre morente si reca a Spilamberto in bicicletta, sotto una pioggia torrenziale, in tempo per vedere la madre ancora in vita, ma si ammala di pleurite. Non può tornare in seminario per la malattia; studia con successo a casa, ed anche dopo un ricovero all’ospedale Ramazzini non potrà riprendere la frequenza. Il tempo passa e si insinua la paura del cosiddetto “mal sottile”. In seguito, uno specialista di malattie polmonari esprimerà la sua diagnosi: tubercolosi.
Remo si dedica, nonostante tutto, a realizzare il suo ideale educativo. L’Azione Cattolica di Spilamberto, legata ad una concezione vecchia quanto al rapporto con i giovani, subisce una svolta radicale nell’estate del 1941, proprio ad opera di Remo, in quel periodo un po’ ristabilito. Egli vuole dare ai giovani “una soda formazione religiosa, culturale ed una salda organizzazione, con l’esercizio di pratiche di pietà, lo studio, i programmi di cultura religiosa e la creazione di quadri dirigenti dell’Azione Cattolica”. Un progetto ricco ed ambizioso; infatti c’è sì la formazione spirituale, ma anche lo stimolo allo studio in un realtà culturalmente povera, oltre all’obiettivo di formazione “dei quadri dirigenti”, quale investimento per il futuro.
Mentre la guerra imperversa e distrugge, Remo costruisce.
Intanto la malattia peggiora e lui viene allontanato di nuovo dal Seminario.
“Lor i-nn’ann menga vlu fêr un caplan: e nuêter agh faràm saltêr fòra un canonic” (“Loro non hanno voluto un cappellano, noi ne faremo un canonico”), commenta polemico don Bondi.
Remo si dedica così totalmente ai giovani.
La sua Associazione della “Gioventù maschile di A. C.”, con sede in canonica, è appoggiata da don Bondi. Viene stabilita una “Regola” e gli Aspiranti si radunano nella stanza che dà sul portico. Si scrive, si lavora, si canta, si disegna; si realizzano mostre, recite e incontri con i genitori. Gli spettacoli, detti “Accademie”, sono rappresentati nel teatrino di via Monache o nella sala in via S. Carlo.
L’attività rivolta ai giovani non è però di comune gradimento e Remo viene anche minacciato da un esponente fascista. Nel '43 - '44 vengono organizzate adunanze clandestine per i Dirigenti di A. C. Il programma educativo di Remo è ribadito in una lettera che lui scrive da Gaiato, dove è ricoverato per un peggioramento: “pietà” (cioè frequenza alle pratiche religiose), “purezza e studio”.
Remo muore nella notte tra il 24 e 25 aprile 1946, senza essere diventato il sacerdote che desiderava. Ma... “A Spilamberto nacque negli anni dell’angoscia un metodo nuovo e gioioso di stare con i ragazzi, una pedagogia per la generazione che sale” (cit. da don L. Campagnoli).
Remo, pur giovane, ha dato una svolta radicale all’A. C. di Spilamberto, ha contribuito a formare religiosamente e culturalmente una generazione. Basti ricordare: Renato Peri e Tonino (“Nino”) Cioni. Costoro, insieme a tanti altri che lo hanno conosciuto e seguito affettuosamente nel suo percorso di vita, a 50 anni dalla morte, ne hanno voluto lasciare memoria con un libretto ricco di testimonianze. Da questa pubblicazione abbiamo tratto le presenti notizie: “Remo. Una biografia di Remo Drusiani”, Barghigiani Editore, Bologna 1996.

mercoledì 27 dicembre 2017

PAGINE DI DIARIO / 22

Da “Per piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.



Franca Santunione, sulla sinistra, e Anna Teresa Morselli
fotografate sulle sponde del Panaro; anno 1951.



 Parte decima

[...] Gli anni passavano e tutto sembrava bello. Anche il lavoro era meno faticoso, non si lavorava più tante ore al giorno, così che di sera eravamo tutti meno stanchi. Passeggiavamo in lungo e in largo per il paese e non mancava mai la passeggiata sul ponte. Ci mettevamo sedute sul marciapiede dando sfogo a tutta la nostra euforia giovanile, cantando, ridendo e naturalmente parlando.
Siccome quella era l’età degli innamoramenti facili, i discorsi finivano sempre su questo argomento. Amori che nascevano e morivano da un giorno all’altro, e spesso a senso unico.
Io su questo argomento non avevo mai niente da dire; continuavo a non provare nessuna emozione per i ragazzi del paese, e non. Ma i non erano ancora pochi, perchè i ragazzi dei paesi vicini si spostavano con difficoltà. Andavano ancora quasi tutti a piedi o in bicicletta.
A onore del vero devo dire che neppure i ragazzi del paese smaniavano per me. Questa è sempre stata un’indifferenza reciproca. I ragazzi del paese non m’interessavano; non perchè fossero brutti, anzi, ma solo perchè avendoli conosciuti da sempre erano privi di mistero.
Io col passare degli anni ero migliorata: non ero più il brutto anatroccolo. Anche gli occhi erano andati a posto da soli, senza neanche l’aiuto degli occhiali. Solo se era brutto tempo, allora avevo un leggero sguardo di venere.
Questo era un modo di dire un po’ consolatorio ma serviva a non crearmi dei problemi.
Nell’attesa che arrivasse questo ragazzo speciale, continuavo a parlarne con mia madre descrivendo questo ragazzo come se dovesse passare la sua vita a guardarmi in adorazione, finché un giorno, stanca di sentirmi dire quelle che secondo lei erano delle farneticazioni, mi disse: «Senti figlia mia! So che gli uomini non sono tutti come tuo padre, ma un uomo come vuoi tu non esiste! Saresti già fortunata se ne trovassi uno che ti rispettasse!».
«Eppure, io sono sicura che da qualche parte c’è ».
«Può pure essere ... Il mondo è tanto grande, che vallo a trovare!».
«Oh, non io, è lui che mi deve trovare! ».
Presa dallo sconforto, mia madre mi disse: «Mah! Devi essere arrivata da un altro mondo, sembri proprio una vissuta su un altro pianeta». E se ne andò scuotendo la testa.
Questo dialogo si svolse un pomeriggio che eravamo sedute nel cortile, sotto casa.
Quell’espressione di sconforto e rassegnazione sul viso di mia madre mi aveva divertita, ma nello stesso tempo la guardai con tenerezza mentre si allontanava.

Erano ormai finiti anche gli anni dell’adolescenza e iniziavano quelli ancora più belli della gioventù.
Che tempi!!!
Sembrava di aver il mondo in mano. Noi, poi, eravamo la generazione che nell’età più bella godeva dei primi vantaggi del progresso. Ci vestivamo con vestiti più carini, andavamo al cinema quando ne avevamo voglia, e soprattutto il cibo non mancava (senza sprecarlo però).
Questa è un’altra ragione per cui sono contenta di essere nata nel 1936; ho avuto così l’età giusta per godere di queste piccole cose, ma che erano grandi soddisfazioni. Certo lavoravamo sodo per averle, ma c’era di bello che non dovevamo dire grazie a nessuno.
Penso che gli unici che hanno sentito meno questo cambiamento siano stati quelli ricchi, o anche solo i benestanti perchè possedevano già quello che al povero mancava da sempre. Il loro era un mondo a parte. Già da piccoli avevano la puzza sotto il naso; anche a scuola era religiosamente mantenuta questa distanza.
Pazienza, anche se questo faceva un po’ male. [...]


mercoledì 20 dicembre 2017

LE RECENSIONI DI NASCO / 5

"Dal Panaro al Piave"
di Cesare Cevolani,
Istituto Enciclopedico Settecani, 2016


(Disegno di Gustavo Cevolani per la copertina del volume)


Spilamberto non ha avuto morti nella prima guerra mondiale.
Questo afferma in modo sorprendente l’autore.
Sia di supremo conforto alla famiglia il sapere che il Reggimento, orgoglioso dei suoi valorosi soldati, scriverà nel proprio libro storico, a caratteri indelebili, il nome Suo; e lo additerà ai commilitoni come esempio fulgido di disciplina e di valore.
In questo modo si comunicava alla famiglia la scomparsa del proprio caro e non si parlava di morte. La retorica addomesticava i fatti.
Ciò che avveniva a Spilamberto rappresenta la modalità con cui in momenti storici particolari un uso del linguaggio nasconde gli avvenimenti, li trasforma in modo tendenzioso a scopi propagandistici.
Spilamberto diventa l’emblema di un costume più generale.
Questo uno dei meriti del libro: il riferimento puntuale delle vicende spilambertesi (una sineddoche, per dirla con l’autore) e il loro legame con quanto succede in Italia. Lo testimonia anche l’ampia bibliografia che comprende i risultati della più recente ricerca storica sull’argomento. Tale ricerca viene richiamata spesso come commento ai nodi storiografici via via incontrati.
Il volume di Cesare Cevolani, “Dal Panaro al Piave” (Spilamberto, Istituto Enc. Settecani, 2016), ricostruisce gli eventi che videro protagonisti Spilamberto e gli Spilambertesi durante gli anni della Prima Guerra Mondiale (1915-1918). Occorre precisare che non si tratta di un semplice collage cronachistico di fatti; i documenti vengono analizzati nei minimi particolari. Basti come esempio il telegramma di tre righe che troviamo all’inizio e la cui analisi si protrae per ben tre pagine (pp.19-21).
 La prima parte della ricerca è dedicata alle numerose trasformazioni di carattere sociale, economico e demografico che caratterizzano il paese: la guerra prima della guerra; il primo, secondo e terzo anno di guerra. La seconda parte vuole invece ripercorrere le storie dei soldati spilambertesi che parteciparono alla Grande Guerra, gli oltre 140 uomini caduti sui diversi fronti del conflitto; molti dei quali corredati di schede biografiche. Questi sono preceduti, tra l’altro, dell’incredibile paragrafo sui prigionieri. Segue il capitolo sui reduci, corredato da materiali forniti da spilambertesi relativi a genitori e nonni. Le testimonianze utilizzate per la ricostruzione provengono da varie fonti archivistiche, tra cui il ricco Archivio Storico del Comune di Spilamberto. Inoltre elementi di cultura orale e digitale: informazioni, storie e fotografie sono state raccolte parte “in Piazza”, chiacchierando e spargendo la voce tra le persone; parte via Internet utilizzando e-mail e “social network”. Ecco allora la sorprendente presenza di lettere, diari, che raccolgono vicende e microstorie dei protagonisti. Così pure la sorprendente galleria di ritratti che conclude un ricco apparato fotografico. Sono fotografie di spilambertesi, quasi tutte effettuate in studio e in posa, “volti di contadini, commercianti, operai che davanti alla macchina fotografica assumono l’aspetto fiero e marziale richiesto dal ruolo che stanno ricoprendo”.
Il libro si conclude con un utilissimo indice di nomi che ci permette di andare a scovare i nostri parenti e conoscenti. Lo stile di scrittura è chiaro, robusto, efficace.
Grazie all’autore Spilamberto è entrato a far parte della storia della Prima Guerra Mondiale.