giovedì 31 maggio 2018

LE RECENSIONI DI N.A.S.CO / 4 (Quarta parte)

La compagnia spilambertese all’inseguimento



Riassunto delle puntate precedenti.
Piccardo e il suo drappello di gran bevitori sancesaresi a Spilamberto tentano di scroccare pranzo e bevande a “Chiacchi” Bergonzini, quando compare l’imperatore.


L’imperatore è “Un colossal monte di lardo… sì grande che un liofante, a paragone, / sembrava un vitellino appena nato”.“In effetti quel era un gran campione/ premiato già nel dì di S Giovanni/ in quella fiera che, per l’occasione, teneva Spilamberto tutti gli anni.”

Il porco, con alle calcagna “tre figuri assatanati/ che, la bocca già piena d’acquolina, inseguono… una delizia sopraffina “, diventa la guida dell’avventura narrativa che prende il via. La scaramuccia iniziale nell’aia assume dimensioni epiche: “brandendo nella mano il suo forcone/ piombò nell’aia Chiacchi scatenato/…Dietro di lui/…uscir due donne che, col mattarello,/menavano gran colpi a perdifiato;/ dalle finestre poi piovea un flagello/ di piatti, brocche, seggiole, pitali,/ qualcuno pien di deiezion fecali.”

Un valido aiuto a Chiacchi giunge da Spilamberto. La storia prende un’altra direzione. Il figlio di Chiacchi aveva intravisto il drappello di sancesaresi e li aveva creduti briganti. Informato il padre, da lui era stato inviato a chiedere aiuto al paese. Il suo viaggio diventa il pretesto per presentare personaggi spilambertesi: così, dopo i Bergonzini di Chiacchi, conosciamo i Bergonzini di Paciuga, i Vecchi, i Pini, i Simonini: il mondo di via Castellaro.
La schiera di conoscenze paesane, nominate con i loro scutmai (soprannomi), si infittisce quando il “bravo giovinetto” giunge nel punto “noto con il nome di Passetto” e a una “florida osteria” dove una folla oziosa è intenta a giocare a pigugnino. “E alla notizia della scorreria / sembrò saltare in aria l’osteria. / Ognun sembrava preso da ossessione: / col pugno il Kid sul tavolo picchiava, /il Grosso pretendeva uno spadone, /il Tubo forte la sua sfida urlava/ e il Duro minacciava distruzione/ mentre a finire il suo bicchier badava. / E in breve, come un fiume turbolento, / usciron fuori e corsero al cimento”.
Poiché si pensava a una guerra bisognava avvertire il marchese Rangoni. Ecco chi ne viene incaricato: “…un avventore, / che col nome di Foca era chiamato/ e di mestier faceva il dipintore”. Ma aveva “la notte prima sbagordato” ed era appisolato su una sedia. Una volta ridestato viene inviato a dare l’allarme.

Il gruppo parte all’inseguimento, si infoltisce di nuova gente così che “era più battaglion che compagnia”. I due rami della storia si uniscono quando “il branco forsennato” di spilambertesi raggiunge quelli di S. Cesario. Di fronte a ciò il gruppo di Piccardo “nel tempo in cui si dice «così sia»/ mise le ali ai piedi e scappò via”. E gli spilambertesi si sentono il petto pieno di orgoglio per questa fuga.

 È il momento di una pausa narrativa dopo tanti eventi e l’autore, rivolta una invocazione alla musa, dall’alto riassume la situazione: il porcello Imperatore guida gli inseguitori, cioè i tre figuri; Bergonzini li tallona col forcone; segue Piccardo con la sua marmaglia e gli spilambertesi in “bizzarra processione”. Arriva però “il più inatteso degli sbarramenti”, ossia “di S. Cesario il muraglione”. Impedimento per modo di dire, perché il portone “era aperto a quelle ore”.

[Citazioni da "La squilla rapita" di Lamberto da Spiniosilva, Mercatino di via Obici, CXXVII Fiera di San Giovanni, Spilamberto, 24 giugno 1997; disegno di Gustavo Cevolani dall'edizione originale]

giovedì 24 maggio 2018

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 53

UN QUADRO PER 19 ANNI



Manoscritto e notizie tratte dall'Archivio Parrocchiale di Spilamberto.
“Caramella” realizzata grazie al contributo e la competenza della professoressa Maria Paola Lelli.


In capponi e tocchi al signor Guido Reno pittore Lire 17,4”, e ancora  Tocchi mandati in dono al signor Guido Reno pittore, Lire 10,5 e, in data 2 dicembre 1635, “Per fare il presente a Reno Lire 19,15”.

Un curioso filo di doni inviati a Bologna lega Spilamberto al pittore Guido Reni. La Confraternita di Santa Maria degli Angeli, che domina la storia del nostro paese per quasi 500 anni, aveva ricostruito la Chiesa di sua pertinenza e commissionato nel 1631 al pittore  una pala d’altare, avente come soggetto l’Assunzione di Maria.
I ripetuti viaggi a Bologna, portando “capponi e tocchi (tacchini) erano incentivi a superare la proverbiale lentezza del pittore per concludere l’opera che gli era stata commissionata.
Evidentemente però il risultato era stato deludente, e soltanto l’11 aprile 1642, alle ore 13, il quadro  arriverà finalmente da Bologna a Spilamberto, tra la festa generale della popolazione che tanto a lungo aveva atteso questo momento, entrando nel “Castello” attraverso la Porta della Rocca e raggiungendo la chiesa.
Si poté così ammirare una “Pittura di Paradiso” (come recentemente la definì Roberto Longhi), in cui domina, in un unico piano, la figura “leggera” di Maria, con la veste rossa e il tradizionale mantello blu, mentre si protende verso l’alto, verso il “Lumen”, verso Dio.
Purtroppo però 19 anni dopo, nel 1661, Fu levata da Santa Maria la bellissima Assunta di Guido Reni, fatta sull’ormesino in stile”.
Cosa era successo?
Difficoltà di ordine economico avevano indotto il feudatario Guido Rangoni, il cui zio Baldassarre aveva in parte sostenuto il costo per l’acquisto dell’opera, a persuadere la Confraternita a vendere il prestigioso dipinto, per evitare la rovina dell’intera comunità.
La cessione avvenne con rogito del notaio Pietro dall’Ara e, in data 26 maggio 1661, “Fu levata da Santa Maria la bellissima Assunta di Guido Reni.
Oggi l’opera si trova a Monaco di Baviera, nella “Alte Pinakothek”.

venerdì 18 maggio 2018

PAGINE DI DIARIO / 26

Da “Quel Piazzale della mia infanzia”, di Laura Bertarelli (stampato nel maggio del 2005).


(Fotografia di Laura che il papà tenne sempre con sé
durante il lungo periodo di servizio militare in guerra.)



Parte decima

[…] Ricordo chiaramente, nonostante l’età infantile, quella sera del suo rientro.
Io, assieme ai miei nonni, zii e cuginetti, attendevo di vederlo arrivare.
Mia madre era andata a Modena, dallo zio Paolo, per poi recarsi alla stazione ed attendere gli arrivi dei treni provenienti da Napoli, pieni di reduci rimpatriati.
Purtroppo in tutti i treni di quel mattino lui non c’era. Ormai rassegnata che arrivasse il giorno dopo, era tornata a casa dallo zio.
Verso mezzogiorno suonarono alla porta, credendo fosse il postino aprì e si ritrovò davanti, dopo sei lunghi anni, suo marito, molto magro, barba lunga, con uno zaino sulle spalle, ma sano e salvo; mia madre lo amava molto e posso capire l’emozione fortissima di quel meraviglioso momento. Era arrivato con un treno straordinario  che fermava solo a Bologna. Assieme ad altri due che abitavano a Reggio Emilia presero un taxi e così arrivò a Modena, distrutto dalla stanchezza dopo aver viaggiato per giorni e giorni su navi e treni stipati, infestati dai pidocchi.
Come ho già detto, noi tutti lo aspettavamo a casa in quella stanza, a me carissima, chiamata “capunera”.
C’eravamo in tanti, io avevo un vestitino di velluto rosso scuro e aspettavo trepidante di vedere quell’uomo, a me sconosciuto, che era mio padre.
Finalmente verso sera sentimmo dei passi nel cortile e tutti a dirmi: “Eccoli, eccoli, mi raccomando, appena entra saltagli al collo e abbraccialo”.
L’emozione mi faceva tremare e quando mi apparve davanti un bell’uomo, alto, magro, dal fisico provato per i patimenti e dal viso emozionato come il mio, lo abbracciai forte mentre lui mi stringeva a sé con affetto.
Capii in quel momento che avevo ritrovato mio padre e che il destino aveva voluto che io lo conoscessi e lo amassi molto e che la sua presenza diventasse una figura importante nel cammino della mia vita. […]


ÒNA SIRA D'AVRÌL ED TANT ÀN FA

Un àm mègher e patìi
al turnèva a cà
dap tant àn ed guèra
con sol la fortùna
d'avér salvèe la pèla
e cla sira par tòtt l'èra bèla.

Òna putèina l'aspetèva a cà
cl'an l'avìva mai vést
ma sol sintù parlèr,
parchè l'éra al so papà,
e quand la nascìva
in guèra in Libia al patìva.

Par tòtt du òna grand emoziòun
e intòren un poch ed confusiòun,
a batìva fòrt al còr,
l'éra turnèe dàp tant dulòr.
Al brazèva finalmèint la so putèina
cl'éra bèle grandèina.

Luntàn, in guèra, in prigionìa,
chissà quanti vòlt con malinconìa
l'avrà pensèe a la so famìa.
Mandèe in mèz a un desért
la so véta in perìcol e custràtta,
chissà quanti vòlt l'avrà preghèe
che la finéssa cla guèra maledàtta.

Cl'àm cal turnèva a cà
òna sira d'avrìl ed tant àn fa,
l'éra al me papà.
Purtròp la pès da truvèr l'è rèra,
parchè dal doméla sòver a sta tèra
i pèrlen ancàra sèimper ed guèra.


LAURA BERTARELLI ELMI

venerdì 11 maggio 2018

IL VECCHIO COMUNE SI RACCONTA / 7°

Dalle fatiche delle corvées i nomi dei nostri antenati



(Documento conservato nell’Archivio Storico Comunale di Spilamberto.)


Prima puntata

Nel Medioevo la parola corvée indicava un lavoro di alcune giornate, non pagato e imposto dal Signore feudale. Si trattava di un balzello obbligatorio a cui anche gli Spilambertesi furono soggetti.
Nel territorio feudale di Spilamberto, governato dalla Famiglia Rangoni, accadeva a volte che per motivi di potere, legami politici e militari, vendette o altro, il “Castello” ritornasse in possesso temporaneamente del Duca di Modena e Ferrara, il “Signore” che lo aveva donato ai Rangoni.
In tali periodi di dominio del potere Estense, ma anche, in minor misura, al ritorno dei Rangoni, la popolazione del “Castello” di Spilamberto e della sua Giurisdizione era obbligata a prestazioni di lavoro gratuito.
Certo non era una fatica ben vista, interrompeva gli impegni che servivano al sostentamento quotidiano degli abitanti. Fra le richieste di prestazioni veniva riproposta frequentemente la corvée per riparare le “muraglie” o l’escavazione o pulitura delle “fosse” della città di Modena: si trattava della fortificazione della città con il suo fossato. Le persone abbienti potevano “saldare il debito lavorativo” con contributi in denaro oppure offerta di prodotti, ed era ciò che avveniva frequentemente.
Ci è giunto un elenco, del 25 aprile 1616, di persone chiamate a queste prestazioni obbligatorie; si tratta di molti nomi di coloro che a quei tempi erano residenti, o possedevano beni, nel “Castello” di Spilamberto e suo territorio feudale. Un’occasione per cercare qualche nostro antenato e riallacciare un rapporto simbolico. Ecco i primi 40 nomi.
Capi famiglia:
1-Andrea Storti 2-Bartolomeo Trenta (“Trenti”) 3-Tommaso Dotto (“Dotti”) 4-Giovanni Malerba 5-Francesco Barbieri 6-Giovanni Pagani 7-Giovanni Vezzali 8-Domenico Passuti (o Pasciuto) 9-Bastiano Barbieri 10-Geminiano Zacharia (“Zaccaria”) 11-Zan (“Gian”, “Giovanni”) Stefano Iacoli 12-Matteo Pasqualini 13-Battistino Ruola 14-Zalvador (“Salvatore”) Gibellino (“Gibellini”) 15- Antonio Covono (“Govoni”) 16-Salvadore (“Salvatore”) Giberto (“Gibertini”?) 17-Pietro Rolo (“Roli”) 18-Domenico Canevazzo (“Canevazzi”) 19-Zan (“Gian”, “Giovanni”) Francesco Zannio? (“Zanni”?) 20-Pellegrino Barbero 21-Giorgio Cavedone (“Cavedoni”) 22-Cesare Toricello (“Torricelli”) 23-Pellegrino Bonifacio 24-Modonino de Vechi (“Vecchi”) 25-Antonio Cavalotto (“Cavalotti”) 26-Giovanni Cavalotti 27-Margherita Monesa? (“Monesi”?) 28-Biagio Gibellino (“Gibellini”) 29-Bartolomeo Cavedone (“Cavedoni”) 30-Alfonso Solmo (“Solmi”) 31-Geminiano Valmora 32-Gerolamo Leonardi 33-Pietro Viani 34-Giovannino Zanaso (“Zanasi”) 35-Francesco Gibellini 36-Matteo Vandello (“Vandelli”) 37-Antonio Sabbadini (“Sabadini”) 38-Antonio Setto (“Setti”) 39-Giulio Minozzi (“Menozzi”) 40-Giovanni Baldochi […].

Arrivederci al prossimo elenco!

giovedì 3 maggio 2018

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 52

Avevamo in cantiere la pubblicazione di un’intervista,
rilasciata da Lilliana Amadessi nel 2012,
dalla quale emergevano la sua personalità, la sua cultura, la sua comunicativa,
la sua capacità di mettere a proprio agio qualsiasi interlocutore.
Era anche l’occasione per ricordare la nascita della “Scuola a tempo pieno”,
esempio in Italia per tante nuove esperienze didattiche.
Purtroppo Lilliana è mancata pochi giorni fa
e noi vogliamo ricordarla pubblicando la citata intervista.


Testo dell'intervista e foto tratti da: "La scuola di Spilamberto in 50 anni di fotografie e racconti",
Ordine dei Cavalieri di Lamberto,  a cura di Luigi Barozzi e Cristina Grandi,
Editore Comune di Spilamberto.


«Il mio primo incarico, nell’immediato dopoguerra, fu una scuola serale a Spilamberto. L’anno dopo mi fu assegnata una scuola serale a Levizzano Rangone, paese molto strano. In quegli anni la contrapposizione fra comunisti e democristiani era al calor bianco a Levizzano come altrove.
Mi fu detto che le due fazioni, non volendo mischiarsi, frequentavano la scuola ad anni alterni: a me toccò l’anno dei democristiani!
Ricordo che il mio primo incarico lo ottenni nella località di Cinghianello di Polinago. Chiesi l’avvicinamento per allattamento e rimasi nella zona di Spilamberto prima di ottenere il ruolo a Samone.
Successivamente chiesi di nuovo l’avvicinamento e fortunatamente ottenni un incarico a Ponte Guerro.
Ci andavo in motorino, ma la strada era molto pericolosa e chiesi il trasferimento a Poggioli, poi feci due anni a Fornace prima di approdare a Spilamberto nella vecchia scuola elementare.
Per parecchi anni insegnai ai bimbi di prima e seconda. Vi era infatti una prassi per cui i maestri insegnavano nelle terze quarte e quinte maschili, alcune maestre nelle terze quarte e quinte femminili o miste e, in genere, venivano assegnate le prime e seconde alle maestre più giovani.
Il Capogruppo degli insegnanti era il maestro Intra che in pratica faceva le funzioni del Direttore, che a Spilamberto mancava perché allora la Direzione Didattica era a Castelnuovo.
Non ricordo il giorno del trasferimento, né di avere partecipato alla cerimonia che si tenne: forse ero a casa in maternità.
Ricordo tuttavia che l’anno scolastico 1962/63 iniziò nella vecchia scuola e il trasferimento avvenne qualche settimana dopo, mi pare in novembre.
Ricordo che la scuola nuova era bellissima, con dei corridoi molto spaziosi e un grande cortile. Ricordo una novità strabiliante, per quei tempi: ogni classe era munita di altoparlante collegato con la direzione.
Il maestro Intra, affascinato da questa novità, pensò di utilizzarla collegandosi con tutte le classi all’inizio delle lezioni per dire la preghiera, il Padre Nostro, mentre sullo sfondo vi era una musica sacra o classica. Tuttavia questa novità durò solo qualche mese, poi venne abbandonata, ma non ne conosco il motivo.
Nei primi anni la scuola di via Marconi funzionava esattamente come quella di via Fabriani; vi erano solo alcune iniziative di doposcuola per aiutare i tanti genitori che rientravano dal lavoro la sera, come quello delle suore che mettevano a disposizione aule per i bambini che facevano i compiti.
Poi, con l’arrivo del direttore Draghicchio, le cose cambiarono e prese corpo il progetto del Tempo Pieno.
Vennero introdotte materie nuove e l’edificio dovette subire modifiche per le nuove attività come, per esempio, la costruzione del forno per la cottura delle ceramiche.
All’inizio gli insegnanti delle nuove attività erano esterni.
Ricordo la signora Amadessi per la Lingua Francese, il prof. Poggi per la Scultura, la maestra Germana Bettelli per la Pittura, i professori Albertini e Maestri per l’attività motoria. Per la danza c’era la bravissima Isotta Baldini. Ricordo che, nella preparazione dei saggi per la danza, noi insegnanti cucivamo i vestiti per le bambine. Lo facevamo volentieri perché il direttore Draghicchio possedeva una virtù rara: riusciva a motivare le persone.
In una riunione ci disse che c’era molto da fare, ma che lui non poteva garantire la remunerazione di tutte le ore lavorate.
La stragrande maggioranza di noi accettò.
Io mi occupavo di Musica, il maestro Baldini di Cinema e Televisione.
Ricordo che la maestra Famigli si recava a “Radio Queen” dove faceva un radiogiornale con i bambini, poi c’era un’insegnante di ceramica di Piumazzo, di cui non ricordo il nome, molto brava.
[...]
In quegli anni vennero formati gli organi di partecipazione dei genitori previsti dalla nuova legge in materia. Ricordo che il primo presidente del consiglio d’istituto fu Rolando Simonini che si spese molto per organizzare attività fra le quali, ricordo, il Carnevale dei bambini.
Vi era un grande fermento fra i genitori anche se non tutti vedevano di buon occhio il tempo pieno: in particolare i cattolici erano molto critici.
Io credo che l’obiettivo di Draghicchio fosse quello di dare a tutti i bambini uguali possibilità di trovare la loro strada, e mi accorsi della bontà di questo progetto quando una bimba, che sembrava chiusa nel mondo dei sogni, nel laboratorio di disegno si trasformò.
Eravamo in novembre, viale Marconi era sommerso dalle foglie gialle dei tigli, e la maestra Bettelli disse ai bimbi di provare a disegnare quel viale.
Ebbene, quella bambina, con poche macchie di colore, fece un quadro bellissimo, il migliore. Poi crebbe, fece l’Istituto d’Arte e divenne una decoratrice di ceramiche.
Forse, senza l’opportunità dàtale dalla scuola elementare, non avrebbe trovato la propria strada.
Ricordo anche il primo incontro dello scultore Ascanio Tacconi con l’argilla: fece un animale tanto bello che sembrava vero, e si rese conto a scuola della propria vocazione per la scultura.
A quell’epoca per i bambini vi era una grande libertà di potersi esprimere.
[...]
La libertà dei bambini di esprimersi mi sembra giusta, perché nella vita non c’è solo il leggere e lo scrivere.
Uno studioso americano, Benjamin Spock, era per l’assoluta libertà dei bambini, ma poi ha dovuto ricredersi.
E c’era anche un metodo, il Boschetti-Alberti, che sosteneva che ogni bambino ha i propri tempi, e che in una scolaresca è impossibile che i 20 o 25 alunni capiscano tutti nello stesso tempo.
I migliori voleranno subito: si dovrà avere un po’ di attenzione per quelli che, prima di volare, dovranno un po’ starnazzare.
Secondo me l’arte di un maestro non sta tanto nel fare andare bene i più bravi, che in ogni modo comunque riusciranno, ma nel suscitare interesse per la scuola in coloro che non la amano o non sono molto dotati.
Forse non era sbagliato lo studio delle poesie a memoria, così come i compiti che prevedevano i pensierini, che comunque inducevano i bambini a riflettere, ma sono metodi ormai abbandonati.
Certamente i maestri di oggi sono molto preparati.
Forse è aumentato l’aspetto tecnico e programmatico dell’insegnamento rispetto alla libertà di espressione di cui parlavo prima.»

giovedì 26 aprile 2018

ROCCA DELLE MIE BRAME / 24


Una inesorabile decadenza



Con Modena capitale della “Repubblica Cispadana” tramonta nel nostro territorio “l’Ancien Régime”: la divisione territoriale in feudi e i privilegi dei “Signori” vengono aboliti. La stessa sorte spetta agli stemmi, “Arme”, degli aristocratici.
Non tutto però si cancella. Il 1814, con la “Restaurazione”, pur non facendo rivivere la vecchia struttura feudale, lascia spazio nuovamente alla preminenza delle antiche Casate nobiliari, e fra queste quella dei Rangoni.
Già si era precisato che nel 1812 la Rocca era tornata di loro proprietà, poiché “bene allodiale” (privato) della famiglia.
I Rangoni non soccombono; in Spilamberto continueranno a mantenere la loro autorità: la ricchezza del patrimonio e la consistenza delle tasse fa si che a chi più possiede, più potere è concesso. Questo accade, come in altri territori, a Spilamberto, alla compagine di coloro, il “notabilato”, che assumono le redini del governo del “Castello”.
I Rangoni preferiranno risiedere a Modena, privilegiando le nuove costruzioni nella città capitale del Ducato, dove componenti della famiglia ricoprono importanti incarichi di governo. Ma il lustro che continua a circondare la famiglia dei “vecchi Signori” non illuminerà più l’antico maniero: la Rocca, da secoli emblema del loro potere, decadrà inesorabilmente.
Il deterioramento non sarà repentino, si può parlare di un periodo di immobilità, quando ancora la loro Corte e i loro ospiti illustri la sceglieranno come luogo di villeggiatura, dove spesso si intrattenevano anche i più ricchi possidenti del luogo.
Purtroppo, come spesso era accaduto nei secoli precedenti, servì anche per stanziarvi truppe, come segnalato in documenti del 1860.
La Rocca rimaneva quindi, nei primi decenni dopo la “Restaurazione”, soltanto una comoda residenza, in cui cercare di far rivivere un passato di splendori ormai lontani, mentre gli interventi di restauro, per adeguamento alle esigenze del tempo, risultavano mediocri: semplici affreschi alle pareti, trascurabili riparazioni.
Accuse, all’allora più importante esponente del Casato, Giuseppe Rangoni, vennero pubblicate da un giornale modenese (1867):

“La rocca degli antichi feudatari […] è […] riattata alla moderna e si cerchi invano i merli venerandi […] si scorge un ridicolo cornicione […]. Ivi un signore potrebbe, restaurando quella rocca, procurarsi una splendida villa, conservare un antico monumento d’una famiglia possente e procacciare un ornamento al paese; ma invece quella rocca cade in rovina, e ti piange il cuore la desolazione che rivela”.


(Alcune informazioni sono tratte da: L. Balboni, P. Corradini, “Rocca Rangoni a Spilamberto. Storia e destino di una fortezza”, Maggioli Editore, 2017. Altra fonte documentaria importantissima è l’Archivio Storico Comunale di Spilamberto.)

giovedì 19 aprile 2018

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 51

Spilamberto 1918: Prigionieri in casa propria


Remo Bergonzini durante la Grande Guerra.
Remo, futuro fondatore del Gruppo Alpini di Spilamberto,
fu catturato dagli austriaci e trascorse diversi mesi in un campo di prigionia in Serbia.
Testimonianza e fotografia di Angela Bergonzini.



Un effetto inevitabile della guerra, si sa, sono i prigionieri: quelli nemici e quelli italiani in mano ai nemici. Dopo Caporetto, Spilamberto è incluso tra i territori in stato di guerra e questo comporta pesanti conseguenze per il paese.
Il 4 novembre 1918 c’è l’armistizio: la guerra è finita, ma le condizioni di vita della popolazione di Spilamberto peggiorano invece di migliorare, e questo è il paradosso; ma sorprendente ne è la causa. Dopo pochi giorni dall’armistizio un Commissario provinciale chiede quanti prigionieri nemici si possano accantonare a Spilamberto. Il Municipio risponde “I locali sono in parte occupati da truppe e prigionieri lavoratori, l’altra parte è requisita per 1800 prigionieri italiani. Nulla è disponibile”.
Questo è il secondo paradosso: prigionieri italiani in Italia. La spiegazione è amara: dopo Caporetto i prigionieri italiani caduti in mano al nemico sono visti con diffidenza e ostilità; sono considerati probabili disertori o cattivi soldati. Al loro rientro si pensa di sottoporli a interrogatorio e tra le aree prescelte per questo c’è la provincia di Modena. A Spilamberto uno dei locali indicati per l’accoglienza è l’Asilo Infantile. Il marchese Rangoni si oppone a tale scelta e scrive al sindaco:È imminente la requisizione dell’Asilo per collocarvi i prigionieri. La prego…di evitare tale iattura per tante povere famiglie che perderebbero così il vantaggio della quotidiana minestra ai loro bambini”. Il marchese si preoccupa solo del nutrimento dei bambini, non della custodia. La richiesta è accolta e in effetti vengono occupati Villa Toschi, la Filanda, il Filandino, il Teatro Comunale e un forno.
La condizione degli ex prigionieri è drammatica. L’Archivio conserva un documento del sindaco di Spilamberto che ce ne informa: “Da domenica (10 novembre) sono qui 1500 prigionieri nostri reduci (dall’) Austria, parte tubercolotici, in pessimo arnese, alcuni seminudi scarsamente e male vettovagliati, ricoverati (in) locali senza vetri, privi (di) coperte col freddo che volge…Taluni elemosinano e rubacchiano dentro e fuori paese. Impossibile impedire contatti con popolazione pericolosi. Urgono provvedimenti e tenere pulizia dai comandi militari …(in) ogni dove mucchi di immondizie perniciosi e sconvenienti”.
La convivenza tra civili e militari, raggiunta prima pur con difficoltà, fallisce in questo momento. A Spilamberto però c’è chi si è prodigato per i prigionieri. Arturo Gatti offrì alloggiamenti, trasporti di viveri e indumenti, assistenza ad ammalati, vino caldo e così via. L’anima di Spilamberto non era vinta.

[Le informazioni sono tratte da C. Cevolani, “Dal Panaro al Piave”, Istituto Enciclopedico Settecani, 2016]