Il capanno dello “Squasa
Bala” in riva al Panaro. – Fotografia: raccolta privata
(Sunto di un’intervista rilasciata da Alessandro Giusti)
Prima parte
C’era una volta
un capanno in riva al Panaro. In un certo periodo, era il 1976/77, chiunque vi
poteva entrare, perché era sempre presidiato da qualcuno: vi si parlava, vi si
beveva e, qualche volta, vi si cenava pure; l’organizzazione era efficiente, ma
rigorosamente improvvisata. Non era un circolo privato, infatti era proibito
avere tessere da esibire. Ognuno doveva portare, secondo le proprie
possibilità, cibi o bevande. Il “capo cuoco”, un certo signor Malmusi,
provvedeva a cucinare, tuttavia chiunque poteva mettersi ai fornelli secondo il
proprio estro culinario, bastava informarne il “capo cuoco”.
Alcune mogli,
all’occorrenza, davano una mano, in primo luogo quella di Manganèl (parleremo
presto di lui) e quella del suo braccio destro, “al Mérel”.
Il ritrovo si
era sviluppato a partire da un capanno sulla riva del Panaro che Manganèl,
scutmai di Gualtiero Varroni, il pittore, aveva in affitto dal pubblico
demanio: con qualche lavoretto divenne abitabile e iniziò la sua singolare
avventura.
“Squasa Bala” fu il nome che il
suo fondatore, Manganèl, diede a questo bislacco sodalizio. “Squassare” è
sinonimo di “scrollare”, e “balla” sta per “sbornia”.
I frequentatori,
o almeno i fondatori del ritrovo, pensarono di creare un luogo dove riunirsi
per smaltire la sbornia acquisita altrove, spesso al “Bar Nazionale”, ed
infatti la prima idea della nascita di “Squasa Bala” venne proprio al citato fondatore
insieme al gestore di quel bar, Romano Franciosi.
Le attività
svolte allo “Squasa Bala”, dalle iniziali discussioni
tra amici, ben presto si articolarono. Si organizzavano divagazioni “culturali”
cicliche, ma non programmate, come quella di premiare il personaggio più strano
dei presenti, oppure chi avesse in quel momento, o avesse avuto in un’occasione
precedente, la “sémmia” (ovvero “sbornia”) più grossa.
In questi casi
nascevano dibattiti molto accesi e discussioni interminabili, con fiumi di vino
che, a volte, facevano rimbalzare la “semmia” più grossa da un personaggio
all’altro.
Oltre
naturalmente al vino, che scorreva in abbondanza e attirava clienti, vi era un
piatto forte: si trattava delle cotiche coi fagioli.
In breve tempo
la fama di questo luogo, che pareva incarnare l’essenza dell’anticonformismo,
si allargò e un po’ per le migliorie che di mano in mano vi si apportavano, un
po’ per la splendida posizione sulla riva del fiume, un po’ per la simpatia dei
“gestori” cominciò ad attirare “clienti” anche da fuori. [...]
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