giovedì 27 luglio 2017

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 45 L'ALBERO DELLA LIBERTÀ A SPILAMBERTO


(Pastello di Cristina Grandi)


Un palo sormontato da un “Berretto frigio” rosso e da bandiere piantato a Parigi nel 1790, l’Albero della Libertà divenne subito il simbolo della Rivoluzione francese e della caduta della monarchia.
Si diffuse anche in Italia e rappresentò l’entusiasmo per la caduta dei regimi assolutistici.
E a Spilamberto? Andiamo in archivio.
Il 14 novembre 1796 Antonio Manni, podestà di Spilamberto, convocò affannosamente i componenti la “Municipalità” di Spilamberto (Francesco Canevazzi, Giacinto Fabriani, Andrea Manni, Giuseppe Pasqualini, Francesco Grandi, Maurizio Monsi), così si definiva allora il “Consiglio comunale”.
Alcuni spilambertesi avevano abbattuto, senza permesso, “una pioppa” nelle “terre basse” dei Rangoni.
Leggiamo il verbale originale:
“ [...] e con grida ed evviva festevoli piantato circa l’ora di notte, segnatamente nella Contrada di Mezzo in prossimità di questo pretorio” (si tratta dell’edificio del vecchio Comune) attorno al quale albero la stessa notte si è con allegria mangiato e bevuto, suonato e ballato; sul quale albero si leggono due emblemi a lettere maiuscole”: [...] LibertàEguaglianza” e il popolo scannerebbe il Podestà presente.
I Municipalisti “deliberarono di far tutto presente al Comitato di Governo” insediato a Modena, città che era stata occupata dai francesi sopprimendo la Reggenza estense il 6 ottobre.
Occorrevano sollecite istruzioni su come agire: di ciò si incaricò Pasqualini. Il podestà, Antonio Manni, terrorizzato, pretese di essere sollevato dall’incarico “per rendere così pago e quieto il popolo che così vuole e desidera, ma però di venire frattanto assicurato della sua persona.”
L’episodio mostra una Spilamberto goliardica e insoddisfatta dei propri dirigenti, appartenenti alla stessa classe sociale presente da secoli al fianco dei “Signori feudali Rangoni”.
L’ “Albero” spilambertese, piantato proprio davanti al municipio, dice quanto favorevolmente si accogliessero i “nuovi poteri”, e l’esplicita minaccia al Podestà rappresenta un affronto all’autorità, una richiesta di rottura con il passato.
Di quanti volessero questo capovolgimento e con quale consapevolezza non vi sono documentazione e certezza.
Indubbia è invece l’eccitazione che l’atmosfera di cambiamento aveva prodotto; ce la testimoniano le parole sopraccitate: “attorno al quale albero la stessa notte si è con allegria mangiato e bevuto, suonato e ballato”.
E per ricordare quanto il presente sia legato al passato possiamo chiederci: questo spirito di aggregazione e festaiolo può indurci ad individuare una continuità storica nella Spilamberto di oggi?

Diciamolo: “è nell’anima del paese”!

mercoledì 12 luglio 2017

IL VECCHIO COMUNE SI RACCONTA / 5°: LA PAURA DELLA FAME


(Secoli XV/XVI, fornai, “fornari”, al lavoro; sezione di affreschi
presenti nel Castello di Issogne in Val d’Aosta, località “La Place”.)


1571... La storia non si capovolge da un anno o decennio all’altro: molti spettri del passato si trascinano nel tempo, non rispettando le epoche definite dagli storici.
Paura della fame, ingiustizie sociali.
Raccolti insufficienti erano ricorrenti, anche se alcuni miglioramenti agricoli li avevano diradati; i capricci della natura erano continuamente in agguato: siccità, piovosità eccessiva, freddo intenso.
La collaborazione delle collettività umane cercava di rimediare.
Così a Spilamberto.
I componenti del “Consiglio della Comunità”, nell’agosto di quell’anno, si riunirono nella “Sala della Ragione”: occorrevano misure adeguate affinché durante la stagione fredda il pane non venisse a mancare, soprattutto a coloro che risiedevano entro le mura castellane. Chi viveva nelle campagne era facilitato, seppur con molta fatica, a racimolare qualcosa per placare un po’ i morsi della fame e sopravvivere.
Trovare il prezzo massimo, il peso e la forma del pane non fu difficile, il “calmiere” era già in uso da tempo, e si faceva riferimento a quello già stabilito nella città di Modena. Occorrerà, però, giungere al governo dei marchesi Lodovico e Bianca Rangoni perché precise e severe norme scritte regolassero tale produzione; saranno gli anni1594 e 1615.
Discussa fu invece, in quel 1571, la scelta della persona alla quale affidare l’obbligo per un anno di “mantenere il pane alla piazza”: o ad uno dei conosciuti ebrei spilambertesi, “Isachi (Isacco) hebreo”, o ad “Andrea Frarino (Ferrarino / Ferrarini).
Vennero accettati gli accordi patteggiati con il secondo e fu così “fornaro” per un anno il “Frarino”: le modalità di contratto soddisfacevano le esigenze comuni.
La produzione e distribuzione del pane era in questo modo assicurata.
La decisione avvenne alla presenza del “Signor Commissario”, del “Notaio Nicolò Maria Tedeschi” e di
Donino Viani (Massaro della Comunità)
Giovanni Costancino (Costanzini)
Ugolino Borelli
Giovanni Rinaldino
Giovanni Bomporto
Giovanni Solmi
Silvestro Opici (Obici)
Giovanni Guidotti
Francesco Maria Moradori (Muratori).

Questi antichi spilambertesi avevano scelto secondo le allora consuete norme vigenti, votando con “fave nere e fave bianche”.
Il dovere di aiutare la comunità era assolto.

Ora a voi lettori un compito: individuare i vostri antenati!

mercoledì 5 luglio 2017

IL GIGANTE SPINALAMBERTO, “BERTO" PER GLI AMICI / 1°


Disegno di Fabiano Amadessi


(Ecco il primo appuntamento dei racconti del “Gigante Berto”
 di cui vi avevamo annunciato la “Rubrica” il 07/12/2016)


Le storie del “doppio”: “Una Spina nel cuore”, prima puntata

L’aurora. Come ogni anno il 21 giugno, solstizio d’estate, Berto si trovava all’Oratorio di Collecchio per assistere all’evento.
Dapprima il sole appariva dietro ai pioppi del campo sportivo di Spilamberto, si allargava poi sul paese e dileguava i sogni del mattino.
Il sorgere come un auspicio favorevole.
Quando Berto se ne andava il sole di giugno era pieno.
La grande quercia rinfrescava il pomeriggio e gli sguardi in attesa dei bambini; Berto li osservava appoggiato al “suo tronco”.
«Ci racconti di Spilamberto?», il bambino dai capelli ricci ruppe l’indugio.
«Sì, i suoi due nomi» precisò la sorella, anch’essa riccioluta.
«“Spinum” e “Lamberti”» iniziò Berto.
«La maestra ha detto “Spina...”».
«Tutti e due. È l’anima doppia di Spilamberto. Da “Spina” poi è nata una bella storia».
«Raccontaci del re» capelli ricci incalzava.
«Insomma non taci mai?!»,  protestò la sorella.
E il vecchio lentamente cominciò:
«Più di mille anni fa non c’era ancora il paese; là, in basso, un paesaggio desolato e fitti cespugli spinosi. Quassù, invece, il luogo del “giardino del Re”, “Verdeta”, dove il Rio Secco, il Rio dei Monti e tante sorgenti rendevano verde un fitto bosco, frequentato da una gran quantità di animali. Il re si chiamava Lamberto e qui si divertiva a cacciare e svagarsi negli intervalli di guerre e di governo. Era la grande riserva reale che acque, sapientemente canalizzate, irroravano piante e fiori che abbondavano rigogliosi; ma venne un giorno...».
Berto fece una pausa, lentamente si voltò verso la collina incurante degli impazienti ascoltatori.
Riprese: «Nel bosco Lamberto avanzava cauto seguendo le nitide orme di un capriolo. A breve distanza lo sguardo torvo di un servo ne sorvegliava i passi: la donna che amava era stata molestata da Lamberto e da tempo una profonda vendetta covava in lui».
Improvviso un lieve fruscio scosse le tenere fronde, un’esile emozione impose una pausa alle parole di Berto. [...]

E questa è una pausa che richiediamo a voi lettori, dandovi appuntamento alla prossima puntata!

mercoledì 28 giugno 2017

PAGINE DI DIARIO / 19

(Spilamberto, “Ventennio fascista”: un gruppo di “Piccole italiane” sfila lungo Corso Umberto I.
- Fotografia da raccolta privata-)


Da “Ricordi di una ragazzina”, di Liliana Malferrari (stampato nel dicembre del 2015).


Parte quarta

[...] Una notte ci fu un gran bombardamento. I punti presi di mira erano la ferrovia (che passava proprio alla fine di via Obici), il ponte e la Villa Rangoni, dove c’era il comando tedesco. Quella notte dormimmo nei campi, sotto i filari dei vigneti e a noi andò bene, tuttavia morirono anche dei civili. Quanta paura! Ero una bimba di otto anni. Quando bombardavano, mollavano anche dei bengala che illuminavano la zona da colpire.
La povertà ti matura troppo in fretta. A quei tempi per poter mangiare qualcosa andavi per le case dei contadini a chiedere l’elemosina, ma era dura anche per loro. A volte ci davano qualcosa tipo un uovo oppure un pezzetto di pane. Quando non ti davano nulla, cercavi di rubare nei campi, tipo frutta o quello che trovavi. Ma non era rubare… era FAME.
Di giorno, quando suonava l’allarme, ci nascondevamo nella Rocca Rangoni, perché aveva delle mura grossissime, e lì ci sentivamo più sicuri.
Ricordiamoci che c’era anche il fascismo e la gente era terrorizzata, perché se non avevi la loro tessera venivi perseguitato. Quante ingiustizie sono state fatte, quanti giovani innocenti sono stati uccisi o portati via, senza che si sapesse più niente di loro.
Ricordo un mattino che era ancora buio e venne un amico di famiglia disperato. Gli avevano impiccato con del filo di ferro il figlio di 19 anni e altri suoi amici. L’esecuzione è avvenuta al Bettolino, una frazione di Vignola. Era il 13 febbraio 1945. Li lasciarono appesi fino al giorno dopo perché nessuno aveva il permesso di tirarli giù. Quando finalmente poterono prendere i corpi, fu la madre del ragazzo a tirarlo giù. Che orrore fu! Ancora oggi c’è una lapide in suo ricordo.
A scuola avevano dato una divisa a noi bimbi, per l’ora in cui si faceva ginnastica. Noi bimbe avevamo una camicetta bianca e una gonna a pieghe nera. I maschi portavano camicia e pantaloni neri e un berretto con fiocco. Loro si chiamavano “i Piccoli Balilla”, noi “le Piccole Italiane”. La scuola non c’era tutti i giorni: come si faceva a insegnare ai ragazzi che vivevano in un periodo dove già tutto ciò che accadeva era un insegnamento? Era regime e loro giravano con i manganelli sempre pronti e li adoperavano spesso, terrorizzando tutti.
All’inizio di via Obici c’era una signora che si chiamava Ida. Era benestante e molto buona. Quando, una volta alla settimana, c’era da andare con la tessera a prendere la carne, c’era da fare una fila lunghissima. Così noi bimbi si faceva a gara per andarci al suo posto perché lei, per ricompensa, ti dava un pezzetto di pane bianco, che avevano in pochissimi.
Alla sera c’era il coprifuoco e non si poteva uscire. Si doveva stare chiusi in casa, con finestre tappate così bene da non far vedere nessuno spiraglio di luce dall’esterno. Noi bimbi si giocava per le scale e, se non suonava l’allarme, si andava a letto presto, tante volte senza cena e con tanta fame. [...]

mercoledì 21 giugno 2017

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA /1


(Pastello di Cristina Grandi)


Il nocino: un profumo, un colore, un sapore.

Nel bosco, con il cane, un intenso profumo familiare: il mallo di una pianta di noce. Era quasi il momento di tastare le noci per preparare il nocino.
La tradizione vuole questi frutti bagnati dalla guazza di San Giovanni. In questi ultimi anni il clima è cambiato e si rischia di avere un frutto troppo maturo. La giusta maturazione si ha quando, forando il mallo con un grosso ago, lo si riesce a penetrare senza trovare una eccessiva resistenza.
La ricetta: 1litro di alcol a 95°, 23 noci (il numero deve essere dispari), 600gr. di zucchero, 400gr. di acqua, un chiodo di garofano, 2 chicchi di caffé, un cm. di cannella, una foglia di noce.
Meglio utilizzare due guanti, la macchia del mallo potrebbe rimane per giorni.
In un contenitore a bocca larga mettere l’alcol, aggiungervi le noci, pulite con un panno umido e tagliate in quarti, lasciare aperto il vaso e mescolare di tanto in tanto.
In un tegame versare l’acqua, aggiungere lo zucchero (un pezzetto di buccia di limone è il mio segreto), portare a leggero bollore, fare sciogliere bene lo zucchero, spegnere e lasciare raffreddare completamente.
Aggiungere lo sciroppo ottenuto all’infuso di noci, unire le spezie, chiudere. La tradizione lo vuole esposto al sole, io seguo Pellegrino Artusi che lo consiglia al caldo, ma al buio per 40 giorni. Quindi lo metto in acetaia, dove in estate la temperatura arriva anche a 40°. Occorre mescolare ogni tanto.
Trascorso il tempo di infusione filtrare, mettere in bottiglie scure, aspettare almeno un anno prima di consumare.
Io faccio invecchiare in una piccola botticella di castagno per un anno il mio nocino filtrato anziché imbottigliarlo immediatamente. È dal 1972 che preparo un mignon come ricordo gustativo dell’annata.
Il ricordo: per parecchi anni ho dormito nel letto con mia nonna Annetta che soffriva di insonnia. A volte, di notte, quando mi svegliavo, la vedevo seduta sul letto, con lo scialle sulle spalle, intenta a sferruzzare. A volte, invece, piano si alzava, con una piccola chiave che teneva al collo apriva l’anta centrale dell’armadio, versava un liquido scuro in un piccolo bicchiere e lo beveva. L’indomani, quando le dicevo di averla vista bere subito indispettita, alzava le spalle, poi mi guardava e non riusciva a trattenere un sorriso un po’ malizioso, ma nello stesso tempo innocente di chi non sa mentire. Era lei che a casa nostra preparava il nocino.
Non ne ricordo il sapore perché ero piccola e non mi era permesso bere liquore, ma so che al termine della preparazione aggiungeva un “estratto di nocino”: liquido scuro contenuto in una bottiglietta in vendita nelle drogherie.
L’oggi: per alcuni anni ho fatto parte dell’ “Ordine del nocino modenese”, che ha sede a Spilamberto, istituzione alla quale possono aderire solo donne. Esse trasmettono la cultura e la tradizione di questo delizioso liquore, organizzano un concorso e per San Valentino un pranzo, dove vengono premiati i dodici nocini meglio qualificati.
Nei nocini premiati, e che ho avuto l’opportunità di assaggiare, spesso non è utilizzata l’acqua: il risultato è un prodotto molto diverso dal nocino tradizionale. A mio avviso si è trasformato in un liquore per signore, quasi un rosolio.
Nel 1998, sul quotidiano ticinese “La Regione”, è stato scritto un articolo che parlava del nocino modenese. Veniva citato Spilamberto e il signor Roberto Zacchieri (uno dei fondatori della “Consorteria dell’Aceto Balsamico”). Avevo appena assistito allo spettacolo “La Ghianda di Giove” rappresentato nel Torrione per la ricorrenza ventennale dell’ “Ordine del nocino modenese”. Colta da campanilismo ho inviato al giornale uno scritto con dettagli che completavano l’argomento e, con il permesso della figlia di Zacchieri, il segreto della ricetta di suo padre. Egli quando preparava lo sciroppo di acqua e zucchero per il nocino ne caramellizzava una parte. Io ho provato e questo procedimento rende il nocino più denso, quasi cremoso e più scuro.
Oltre il confine: qui in Ticino si prepara il Ratafià che molti chiamano nocino. La differenza tra i due sta nell’ingrediente alcolico; alcol a 95° per il Nocino, grappa di uva americana o di uva Merlot per il Ratafià. Il procedimento è molto simile, ma è minore il numero delle noci, molte più le spezie tra le quali il baccello di vaniglia. Gustativamente è un liquore molto diverso. Se prodotto con l’uva americana, che è molto aromatica, se ne percepisce il sapore, è meno alcolico, più speziato, più dolce e, visivamente, molto più chiaro rispetto al nocino.
Sia il Nocino sia il Ratafià vengono preparati dall’industria, ma sono anche liquori casalinghi e la ricetta varia di casa in casa, e di regione in regione.

giovedì 15 giugno 2017

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 44: UN’INVENZIONE ENOLINGUISTICA SPILAMBERTESE: “SQUASA BALA” (2)


(Sunto di un’intervista rilasciata da Alessandro Giusti)

Seconda ed ultima parte

[...] Per contribuire all’autofinanziamento fu fatta stampare una maglietta con la scritta “Squasa Bala”, mentre sulla schiena vi si leggeva: ”Sèt quèl tè? Mè an sò gninta” (un detto filosofico di Manganèl). Questa maglietta fu la protagonista durante una cena a cui partecipò anche un gruppo di medici di Modena. Una bella ragazza, dopo averla indossata, mangiato e bevuto, mise gli occhi su uno dei giovanissimi frequentatori del “ritrovo” e tanto fece che lo portò con lei a Modena, fino al mattino successivo.
Maglietta e clima anticonformistico che si respirava nel ritrovo avevano sconvolto i parametri culturali dell’epoca, quelli per cui era l’uomo che doveva fare la prima mossa.
Vennero sviluppate anche attività collaterali, come gite turistiche in corriera (famosa quella ad Orvieto) e partite di calcio giovani contro sposati.
Una fabbrica dismessa, luogo di grandi dimensioni, fungeva da “succursale”, quando venivano organizzate feste per le quali si prevedeva una grande affluenza. Lo staff di “Squasa Bala” si trasferiva in quel grande edificio nel quale avevano ricavato una bella cucina dove un tempo vi erano gli uffici.
Queste scorribande, però, non piacevano a Manganèl il quale volle ritornare all’iniziale spirito di semplicità.
A causa di qualche dissapore nato fra i frequentatori avvenne che un gruppo si staccò da “Squasa Bala” per fondare, a un centinaio di metri, “Amici del Panaro”, un’associazione regolarmente costituita e tuttora operante, che si può proprio dire nata da una costola di “Squasa Bala”.
Dopo questa divisione “Squasa Bala” continuò a vivere, seppure in modo ridotto, grazie soprattutto all’apporto dei più giovani; il suo ruolo di “ritrovo”, però, aveva subito una ferita, e il numero di frequentatori abituali si era di molto assottigliato, ma non in modo tale da provocarne l’immediata chiusura che, comunque, avvenne sul finire del Millennio.
Oggi dello “Squasa Bala” è rimasto qualche resto sulla sponda del Panaro: un colpo d’occhio per chi lo ha vissuto o ne ha sentito parlare. Ma quell’esperienza vive ancora nel menu del Bar Nazionale, ed ogni giorno molte persone leggono quelle due strane parole, quell’acrobazia eno-semantico-linguistica che ci ha consegnato Gualtiero Varroni, detto Manganèl, un cocktail bomba per chi se la sente di rivivere un’avventura alcolica!

mercoledì 7 giugno 2017

CARAMELLE DALL’ARCHIVIO / 43: UN’INVENZIONE ENOLINGUISTICA SPILAMBERTESE: “SQUASA BALA”


Il capanno dello “Squasa Bala” in riva al Panaro. – Fotografia: raccolta privata


(Sunto di un’intervista rilasciata da Alessandro Giusti)

Prima parte

C’era una volta un capanno in riva al Panaro. In un certo periodo, era il 1976/77, chiunque vi poteva entrare, perché era sempre presidiato da qualcuno: vi si parlava, vi si beveva e, qualche volta, vi si cenava pure; l’organizzazione era efficiente, ma rigorosamente improvvisata. Non era un circolo privato, infatti era proibito avere tessere da esibire. Ognuno doveva portare, secondo le proprie possibilità, cibi o bevande. Il “capo cuoco”, un certo signor Malmusi, provvedeva a cucinare, tuttavia chiunque poteva mettersi ai fornelli secondo il proprio estro culinario, bastava informarne il “capo cuoco”.
Alcune mogli, all’occorrenza, davano una mano, in primo luogo quella di Manganèl (parleremo presto di lui) e quella del suo braccio destro, “al Mérel”.
Il ritrovo si era sviluppato a partire da un capanno sulla riva del Panaro che Manganèl, scutmai di Gualtiero Varroni, il pittore, aveva in affitto dal pubblico demanio: con qualche lavoretto divenne abitabile e iniziò la sua singolare avventura.
Squasa Bala” fu il nome che il suo fondatore, Manganèl, diede a questo bislacco sodalizio. “Squassare” è sinonimo di “scrollare”, e “balla” sta per “sbornia”.
I frequentatori, o almeno i fondatori del ritrovo, pensarono di creare un luogo dove riunirsi per smaltire la sbornia acquisita altrove, spesso al “Bar Nazionale”, ed infatti la prima idea della nascita di “Squasa Bala” venne proprio al citato fondatore insieme al gestore di quel bar, Romano Franciosi.
Le attività svolte allo “Squasa Bala”, dalle iniziali discussioni tra amici, ben presto si articolarono. Si organizzavano divagazioni “culturali” cicliche, ma non programmate, come quella di premiare il personaggio più strano dei presenti, oppure chi avesse in quel momento, o avesse avuto in un’occasione precedente, la “sémmia” (ovvero “sbornia”) più grossa.
In questi casi nascevano dibattiti molto accesi e discussioni interminabili, con fiumi di vino che, a volte, facevano rimbalzare la “semmia” più grossa da un personaggio all’altro.
Oltre naturalmente al vino, che scorreva in abbondanza e attirava clienti, vi era un piatto forte: si trattava delle cotiche coi fagioli.
In breve tempo la fama di questo luogo, che pareva incarnare l’essenza dell’anticonformismo, si allargò e un po’ per le migliorie che di mano in mano vi si apportavano, un po’ per la splendida posizione sulla riva del fiume, un po’ per la simpatia dei “gestori” cominciò ad attirare “clienti” anche da fuori. [...]

Arrivederci alla prossima, ed ultima, puntata!