mercoledì 2 gennaio 2019

CAPRICCI DIALETTALI / 15

L'ARRÌV ED LA BEFÀNA



Sèint, sèint cal canòun dla stóva come al ciòca:
le la Befàna cla pasa e la farlòca.

L'éra mé Nòn ch'al mal gìva
quand a i éra cìna e agh cardìva,
e mè cal canòun dla stóva a guardèva:
"Ma come faràla a pasèr", a pensèva.
La sarà acsè mègra, lónga e sàca
par stèr dèinter in cal tub come óna ràca.
E po' come la farà a gnìr fóra?
Sla pasa dal camèin col fóm la s'afóga!
E sa gh'è dal fóg l'as pól brusér.

A lèt cla sìra quant pensér!
Quant insàni: la Befàna ch'la vulèva,
a cavàl ed la granèda la zerchèva,
a la vdìva mègra, mègra; sta a vàder 
che préma d'arrivér la s'inzóca e la va a caschèr,
la finéss ch'la s'fa dal mèl con tótt e stàl da fèr.

Quand a la matèina t'ed desdèv,
al prém quèl l'éra, pian pian, andèr 
a vàder sa gh'éra asvèin o dèinter
in cal calzàtt méss là la sira préma.

Col cor ch'al batìva e i oc' chi lusìven:
"Sa gh'éra?". Óna zestlèina 
con dèinter óna bèla bambulèina.

An sò spieghèr la mé felicitèe!
Pòvra Befàna! Chissà quant l'avrà tribulèe!
E a mé dmandèva: "Ma come avràla fat
a gnìr fóra da cal tub acsè stràt?".

Ed sicùr l'avrà fat óna magìa:
le al dè dl'Epifanìa,
e tótt al fèst al pòrta via. 

Davanti a la capàna dal presèpi
l'éra arrivée anch i Re Magi a purtèr tri regalèin 
a un putèin, nèe da póch dè, Gesó Bambèin.

Par i putèin cràder a Babbo Natale e a la Befàna 
le la pió bèla fantasìa 
e un di pió chèr ricòrd ch'agh sia.



                                                                                              Laura Bertarelli

mercoledì 26 dicembre 2018

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 7 (II parte)

Gli amaretti di Spilamberto


1916 - Da destra: Concetta Sirotti detta “Gemma”, Athos Nazareno Freschi, Anna Freschi. 
“Gemma” era mamma di Mario Freschi e moglie di Ariodante Freschi,
il cui fratello possedeva la privativa per sale tabacchi a Spilamberto.



Timbro originale di proprietà della nipote di “Gemma del forno”.


Seconda ed ultima parte

[...] Scopro che quel procedimento è lo stesso delle donne entrate nella storia degli amaretti spilambertesi: Maria Lambertini Scarabelli, Maria e Concetta Sirotti, quest’ultima conosciuta come “Gemma del forno” e tante altre che continuano a produrli e a venderli.

È molto difficile risalire a chi ha inventato la ricetta degli amaretti.

Fin dal Medioevo la mandorla era uno degli ingredienti più usati nelle cucine di corte; il suo latte e burro era un’alternativa alla carne nei periodi di Quaresima, era un addensante, naturale per brodi e salse. Un biscotto che ci riconduce all’amaretto sembra essere nato in Italia durante il Rinascimento, con ingredienti aggiunti quali, farina, zafferano e spezie varie, ingredienti indispensabili per la cucina di quell’epoca.
L’amaretto dei nostri giorni, secondo le fonti più accreditate, sarebbe stato inventato in Piemonte nella metà del Settecento,  si  è poi  diffuso in molte regioni d’Italia, dal nord al sud.  Anche se gli ingredienti sono sempre gli stessi (mandorle, zucchero e albumi) si differenziano a secondo delle tradizioni locali: a volte morbidi o croccanti, o secchi come quelli di Saronno famosi in tutto il mondo; variabili nella friabilità e nell’intensità amarognola.
La particolarità di quelli di Spilamberto è che sono croccanti fuori, morbidi dentro; questa è la caratteristica che li differenzia da quelli di Modena, più secchi.
Per anni sono rimasti solamente  una consuetudine familiare.
Fu la famiglia Goldoni verso la fine dell’Ottocento a commercializzare gli amaretti a Spilamberto. La loro pasticceria  era molto rinomata; la cottura degli amaretti avveniva nel forno di Concetta Sirotti, detta “Gemma del forno”. Con la cessata attività della pasticceria Goldoni, avvenuta nel 1930, Concetta, che aveva imparato e iniziato a preparare gli amaretti, continuò la produzione e vendita fino al 1933, momento in cui trasmise a sua cugina Maria e ad alcune amiche la ricetta. 
C’è chi ama attribuire la caratteristica che distingue gli amaretti di Spilamberto alla signora Goldoni, in quanto prima produttrice e divulgatrice del prodotto. Gli storici la vorrebbero uscita dalle cucine nobili e si ipotizza l’apprezzamento di questo biscotto da parte dei marchesi Rangoni.
Se non fosse per il piccolo quantitativo di farina di riso, la ricetta che  considero più simile all’attuale è scritta nel ricettario di Ferdinando Cavazzoni (un libro di cucina modenese del 1886) credenziere di casa Molza,  anch’essi nobili e proprietari terrieri a Spilamberto: 
“Prendete mezza libbra (225 gr.) di mandole dolci e 60 gr. di mandole amare pelate unitamente alla metà d’un bianco d’uovo, si pestano nel mortaio, mettetele in un catino con 50 gr. di farina di riso, 3 hg. di zucchero in polvere, 4 bianchi d’uova montati; mescolando mettete la pasta così fatta sopra a fogli di carta a piccole porzioni, fate cuocere in forno non troppo caldo dopo averli spolverizzati di zucchero”.
Deduco che, dalle ricette qui riportate, le indicazioni che più si avvicinano  alla tradizione sono quelle in cui si prevede di unire lo zucchero alle mandorle e non la mia che prescrive di unire lo zucchero agli albumi.
A questo punto mi chiedo: ma dove ha preso la ricetta mia nonna Iside?

mercoledì 19 dicembre 2018

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 7

Gli amaretti di Spilamberto



Parte prima
               
G
              Gli amaretti erano un dolce delle feste, l’alto costo delle mandorle lo rendevano un biscotto prezioso, le famiglie contadine spesso mettevano da parte le armelline delle albicocche per la loro preparazione. A casa mia si preparavano solo a Natale o con l’arrivo di parenti che venivano da lontano. A questi se ne regalavano sempre da portare a casa confezionati con un imballaggio speciale: una elegante scatola di cartone, munita di coperchio, color paglierino, adornata ai lati interni da un candido pizzetto di carta. Noi gli amaretti andavamo a cuocerli al “Forno di Baccolini”.  Oltre alle teglie, per foderarle ed evitare che si attaccassero, ci veniva consegnata la carta del sacco della farina; dopo averla sistemata bene sulla teglia, mettevamo  a  piccoli mucchietti ben distanziati l’impasto che si era preparato a casa.
Tolti dal forno occorreva lasciarli raffreddare benissimo prima di staccarli dalla carta; spesso si impilavano i vari fogli e si staccavano una volta giunti a casa.
Oggi io preparo gli amaretti con la ricetta di mia nonna Iside.
Per una decina di amaretti occorrono: 1 albume, 100 gr. di zucchero, 100 gr. di mandorle, 5 o 6 mandorle amare. Il mio procedimento è quello che usava mia nonna con piccole varianti per aumentarne il sapore.  Utilizzo le mandorle con la buccia, le metto in un tegame con acqua fredda, porto a bollore, le tolgo dal fuoco e le pelo. Le faccio asciugare in forno per una decina di minuti a 150°. Le trito nel mixer (sarebbe meglio a coltello) assieme a quelle amare aggiungendo 1 o 2 cucchiaini di zucchero tolto dal peso che mi occorre per preparare la dose stabilita. Monto a neve ben ferma gli albumi con alcune gocce di succo di limone, aggiungo molto lentamente e a più riprese lo zucchero rimasto cercando di non smontare l’albume, unisco le mandorle macinate e un pizzico di sale. Lascio riposare l’impasto una mezz’oretta mescolando di tanto in tanto. Dispongo l’impasto a mucchietti grandi quanto una noce su carta forno, li spolvero in superfice con un pizzico di zucchero e inforno a 160° per 25 minuti.
Difficile trovare due amaretti simili, ogni famiglia ha il proprio segreto; io e mio zio Mauro, figlio di mia nonna Iside, li prepariamo con la stessa ricetta e otteniamo  due risultati diversi e sono molto più buoni i suoi, dice lui! Sono più di quarant’ anni che li preparo con la stessa ricetta, ma un fatto mi obbliga a prepararli con un altro procedimento .
Sempre, mentre si mangia si parla di cibo, così, parlando di amaretti,  tra una tigella e  l’altra, con la presunzione che la propria sia la “vera” ricetta tradizionale degli amaretti, la signora Vanna Tagliazucchi mi svela il segreto della vera ricetta antica e racconta: “... Alle mandorle tritate si unisce lo zucchero, (lo zucchero io lo aggiungo agli albumi) così  trattiene bene l’olio, poi, lentamente, si unisce l’albume montato a neve. Si deve mescolare molto bene, l’impasto “l’ ha da fer la tìa…”.
Che dire? Io ho capito  cosa intende, ma spiegarlo…! È un impasto consistente, che tiene, che lo senti, che, quando lo porzioni, un po’ fila.
La differenza tra le due preparazioni non è tanta perché sono simili nel sapore, mentre nella consistenza quelli di Vanna all’interno sono morbidi, friabili, un po’ spumosi, li senti sciogliere in bocca, i miei hanno sì l’interno morbido, ma è più consistente e compatto.
Ma la ricetta antica quale sarà? [...]

Arrivederci alla seconda puntata!


mercoledì 12 dicembre 2018

CAPRICCI DIALETTALI / 14

L’ASÉ BALSÀMA

Sonetto di Silvio Cevolani,
tratto da  “Storia di Spilamberto a Sonetti”, Mercatino di Via Obici, 2003


Disegno di Fabio Amadessi per “Vita di San Balsama”, Mercatino di Via Obici, 2008.


Guerda egh culor, piò scur che al piò brot pchè,
e pés, e deins ch'al pèr quesi savor;
mo bel e cier damanch t'l'aves culè
e quand l'é bel daboun al fa lusor.

Verel mo adesa e apeina destapè
mategh asvein al nes e seint l'udor
che un'eter quel ch'al sia acsè profumè
t'en al sintre mai piò, al me bel sgnor.

As capes ch'a t'in dagh un cuciarein
e un cuciarein d'arzeint e brisa ed zama[1]
che i sgnor i van coi sgnor: o an deghia bein?

E adesa t'al po dir se la so fama
l'é giosta opur s'l'é un quel da buratein:
adesa t'l'é sintu l'Asei Balsama.




[1] Lega metallica di scarso pregio. Con tocco professionale preciserò che è costituita principalmente da zinco, con un 4% di alluminio e poco magnesio (0,04%); a volte anche un po' di rame (1%).

giovedì 6 dicembre 2018

PAGINE DI DIARIO / 31


Da “Per piacere non buttatemi via”, di Franca Santunione.


(Anno 1959, Spilamberto, fontana del Municipio: Piero (in alto a sinistra) e altri colleghi dell’A.G.I.P.)


Parte quattordicesima

[...] Ora apro una parentesi per spiegare perché quei tanti ragazzi erano arrivati a Spilamberto.
Da quasi due o tre mesi l’ENI-AGIP aveva iniziato  a fare nei dintorni del paese delle perforazioni per l’estrazione del gas.
Io non ne sapevo nulla, non avevo visto nessun viso nuovo in giro per il paese fino a quella sera.
Arrivarono a Spilamberto alla fine di maggio 1958, dopo aver fatto un corso di sei mesi a Cortemaggiore (PC): tanti ragazzi provenienti da tutte le regioni d’Italia.
Quelli che già erano a Spilamberto vennero trasferiti; non tutti però, perché un cantiere di quel genere non poteva essere messo in mano a dei ragazzi appena usciti da un corso.
Il giorno dopo  non riuscivo a togliermi Piero dalla testa, ma ero convinta che questo fosse dovuto alla sua simpatia, a quel suo modo di parlare e a ciò che mi aveva detto... e mi sorprendevo a sorridere da sola.
Quella sera, come sempre, dopo cena uscii  e trovai  le mie  amiche sedute ai giardinetti, ma non su una delle panchine dove si poteva vedere ciò che succedeva su tutta la Piazza.
Essendo queste già occupate, ripiegarono su quelle di via Obici, così che noi non potevamo vedere ciò che succedeva nella piazza, ma neppure chi si trovava a passare in questo luogo poteva vederci se non quando una decina di metri divideva gli uni dagli altri.
Questo può sembrare senza importanza, invece se così non fosse stato, oggi non sarei qui a raccontare questa mia storia, cioè la mia vita, che era cambiata la sera prima, ma che ancora non lo sapevo...
Seduta insieme alle altre c’era l’amica della sala da ballo che mi chiese subito la ragione del mio comportamento che li aveva lasciati tutti sbigottiti.
Dopo averle spiegato il motivo, mi disse che quello che si era arrabbiato di più era stato il ragazzo romano: era così arrabbiato che alla fine aveva detto:
«Spero di non vederla mai più!».
Questa frase mi fece sorridere, perché in un paese è difficile non incontrarsi; era solo questione di tempo.
Infatti… dopo una decina di minuti eccolo arrivare!
Era in compagnia con uno dei ragazzi della sera prima.
Essendo seduta sul lato destro della panchina (sulla spalliera), ero la prima ad essere vista attraverso le prime due arcate del portico che formavano l’angolo tra la Piazza e via Obici.
Piero come mi vide  si bloccò, e si girò di scatto per ritornare indietro,  l’altro ragazzo, che invece voleva venire avanti, lo tirava per un braccio, così che uno tirava di qua e l’altro di là, poi dopo un po’ Piero cedette e  vennero avanti.
In quel momento ero spaventata. Temevo che mentre erano lì arrivasse Marco, anche perché era già difficile trovare delle spiegazioni per come mi ero comportata la sera prima... figuriamoci se mi avesse visto in compagnia di altri ragazzi!
Col tempo ho capito che la mia paura non era questa:  inconsciamente non volevo che Piero sapesse dell’esistenza di Marco, ma in quel momento, presa dal timore dell’arrivo di Marco, dissi alla mia amica di dire, appena si fossero avvicinati, se volevano fare una passeggiata, e se dicevano di sì, di andare in fondo alla strada dove c’era un giardino e all’interno un cancello, e di aspettarci lì che noi li avremmo raggiunti appena sua madre (che la stava sorvegliando) si fosse distratta [...].
Avevano accettato. Veramente fu l’altro ragazzo a dire di sì; Piero si limitò a dire un semplice “buona sera”. Io non potevo incamminarmi insieme a loro perché era la strada che di solito  faceva Marco quando arrivava nel piazzale.
Appena si furono allontanati mi sono alzata, dicendo alle amiche che se fosse arrivato Marco di dire che non mi avevano vista, poi sono andata ad spettare l'amica  in una via parallela (via Savani).
Al suo arrivo abbiamo raggiunto i ragazzi che ci aspettavano vicino al cancello. Questo cancello era l’ingresso principale di una bella villa circondata da un parco. Entrammo.
Io e Piero dopo aver passeggiato per un po’, ci  sedemmo  su uno dei gradini di una scala che si trovava di fronte alla villa, e che portava a un laghetto. Nel frattempo notai  che Piero non era più quello della sera prima.
Avevo l’impressione che mi studiasse per vedere se per caso non fossi un po’ matta.
Quella sera non poteva essere più bella di così.
C’era la luna piena, e il cielo pieno di stelle, e dentro al laghetto tantissime rane che facevano una grande confusione. Tutta quella confusione fece dire a Piero:
«Abbiamo le rane che ci fanno la serenata!».
Fu l’unica frase carina che disse in quel paio d’ore che rimanemmo seduti su quegli scalini.
Mi faceva piacere vedere che non approfittava della situazione perché ero sempre convinta di provare per questo ragazzo solo della simpatia e mi piaceva sentirlo parlare.
Non poteva però fare scena muta (sarebbe stato imbarazzante), così mi parlò di Roma, della sua famiglia e della ragione che l’aveva portato a Spilamberto.
L’ascoltavo senza perdere una parola: quando ebbe finito, sentii il bisogno di parlargli di me.
Raccontai quella sera a Piero ciò che a Marco non ero riuscita a dire in tre anni. [...]
Gli raccontai che lavoravo dall’età di dodici anni, che lavoro facevo e che ero nata in una delle famiglie più povere del paese, ma soprattutto gli parlai di mio padre. Quando ebbi finito fu come se mi fossi tolta un macigno dallo stomaco.
Mi venne facile raccontare queste cose perché Piero mi ispirava molta fiducia; [...] La sensazione di parlare solo a un amico durò ancora pochi minuti.
Non avendo l’orologio gli chiesi che ora fosse? Disse  che erano le 22,30.
«Devo andare a casa» dissi «perché domattina devo alzarmi presto per andare al lavoro».
Anche Piero doveva andare al lavoro quella stessa notte alle 4, così si alzò ed allungò una mano per aiutarmi ad alzarmi.
Come mise la mia mano sulla sua, fu come se avessi toccato un filo elettrico scoperto: sentii una scossa per tutto il corpo. Avevo forse avuto un colpo di fulmine con 24 ore di ritardo? O per 24 ore avevo mentito a me stessa  nel voler credere che per quel ragazzo provavo solo della simpatia?!
Mentre andavamo verso l’uscita cercavo di fare l’indifferente, ma avrei dato l’anima per sapere cosa Piero provava per me.
Questo lo seppi quando arrivammo al cancello.
A pochi metri da questo c’era un grazioso pozzo di marmo bianco (o travertino) e ferro battuto, Piero lo vide e mi chiese se era il pozzo dei desideri. Risposi che non lo sapevo.
«Allora vediamo se lo è!» disse. Mi prese per mano e andammo vicino al pozzo, raccolse un sassolino, lo buttò dentro, aspettò qualche secondo poi mi guardò e disse: «Tu non hai niente da desiderare?».
Io: « Un desiderio l’avrei, ma non posso dirlo!».
Lui: «Non devi dirlo ma solo buttare dentro un sassolino, pensare intensamente e vedrai che si avvera!».
Così feci; poi ci spostammo verso il cancello. Lì giunti, Piero dice: «Posso sperare di vederti domani sera?».
Il pozzo aveva funzionato! [...]

mercoledì 28 novembre 2018

ROCCA DELLE MIE BRAME / 26

Nel verde verso il fiume: il “zardinum” della Rocca



(Parco della Rocca di Spilamberto: recinzione metallica
che racchiude le “tracce” dell’antica canalizzazione.)


“...passeggiate ed approcci chiacchieraticci nel zardinum...” riportavamo in una caramella precedente.
Filari di “olmi ben grossi” accompagnano oggi la nostra passeggiata storica. Occorre però attraversare il ponte, ormai fisso, superare la “vecchia Torre del belvedere” e spingere lo sguardo verso est dal suo arco centrale. Là in fondo il fiume. Lì vicino un “Casino” decadente, allora una “delizia”, un “Petit Trianon” spilambertese anticipava quello di Maria Antonietta nel castello di Versailles: affreschi interni dal “nostro” Giulio Troili, il “Paradosso”. Una pergola di vite verso nord ci rimanda a quegli anni secenteschi.
A lato un vasto prato che nell’inverno diventa quasi un acquitrino, impraticabile, e gela il “Prato degli specchi”.
Gli occhi dell’immaginazione ci presentano un settecentesco meccanismo utile per portare acqua alle coltivazioni, “per adaquàre” prati, piante e varia vegetazione, circondata da siepi disposte in schema geometrico; un succedersi di orti, giardini, vigneti, insieme a “peri, pomi, prugne bianche” ed alberi ad alto fusto, pioppi, salici e gelsi.
Verso nord-ovest, nell’invaso dell’antico fossato, una guizzante “peschiera”.
La luce del sole di mezzogiorno ci scopre uno specchio di colori: vasi e vasi di agrumi, “naranzi e limoni” verso sud, destinati a sonnecchiare, durante l’inverno, nella “Torretta” di sud-est che li domina dall’alto. Oggi la nostra “Muntagnìna”.
A volte echi di preghiera, suoni di canti religiosi interrompono la loquacità di quel silenzio. Forse è giunto un predicatore, oppure è la festa della Madonna, una delle tante venerate in Spilamberto. Nel “Prato della Rocca”, verso sud-est, si è radunata la gente del “Castello” al cospetto di un’architettura temporanea, allestita con materiali naturali; sono tronchi d’albero, oltre a ciò che le Parrocchie offrono: tappezzerie, tende di seta, quadri ed ornamenti. Un altare provvisorio per onorare personaggi importanti, Santi o celebrare feste religiose.
I “Signori” hanno concesso accoglienza: gente umile può vivere momenti di stupore e religiosa suggestione. Le eccessive fatiche del quotidiano vengono così dileguandosi nel verde di quel “Zardinum”.


(Notizie “condite con fantasia” e tratte da: Criseide Sassatelli, “La Rocca di Spilamberto e le sue adiacenze”, Comune di Spilamberto, giugno 2006; L. Balboni, P. Corradini,”Rocca Rangoni a Spilamberto”, Maggioli Editore, 2017.)

mercoledì 21 novembre 2018

STORIE DI SPORT A SPILAMBERTO / 2


Nino Olivieri, un sarto con la passione del calcio

di Luigi Barozzi


Campionato Giovanile FIGC 1947/48 - La compagine “Esperia”

Da sinistra - In piedi: Walter Bergonzini, Luigi Bonvicini, Gino Vandelli (detto Baligia)
Semiaccosciati: Vittorino Giusti, Arnaldo Zaccaria, Franco Piggi, Giuseppe Donati (in borghese)
Accosciati: Luciano Malagoli, Glauco Giovetti, Adelio Pelloni, Gianni Bonettini, Mario Costanzini.



Nino Olivieri, classe 1929, di professione sarto. La sua passione per il calcio era grande. Da ragazzo gli sarebbe piaciuto fare il portiere, favorito in questa sua aspirazione dal fisico longilineo, ma decise di non praticarlo a livello agonistico. Tuttavia fondò una squadra giovanile nel 1947, prima tappa di un’attività nel settore che terminerà nel 1970; ventitre anni spesi al servizio dei giovani, anni contrassegnati anche da successi ma, soprattutto, da un intenso lavoro quotidiano la cui unica ricompensa era la soddisfazione di vedere in campo ragazzi che, anche attraverso lo sport, crescevano con equilibrio imparando a soffrire negli allenamenti e a rispettare gli avversari nelle partite. La prima squadra che Nino fondò fu la “Esperia”, nel 1947, formata da giovanissimi, dagli 11 ai 14 anni, anche se il regolamento avrebbe consentito di utilizzare ragazzi fino a 18 anni. L’Esperia partecipò al Campionato Giovanile della FIGC e, dopo un inizio stentato, terminò con un lusinghiero quarto posto.
Erano tempi difficili, la guerra era finita da poco e, per potere avere il necessario per giocare, le maglie in primo luogo, dirigenti e giocatori raccoglievano in Panaro una radice, chiamata “busmaróla”, che serviva per fare le spazzole, e raccoglievano anche i rametti di pioppo che servivano per fare i cesti di vimini.
Prima della partita bisognava segnare il campo, montare le reti e smontarle a fine partita: a ciò provvedeva Nino insieme a collaboratori come Mario Brandoli,  Peppino Bergonzini e, talvolta, qualche sportivo volonteroso.
Peppino Bonvicini e Aldo Giovetti, ex dirigenti della squadra locale, davano un sostegno in qualche occasione. Una volta misero a disposizione di Nino una serie di oggetti che consentirono di organizzare una pesca davanti al portico di Bondi. In questo modo fu possibile acquistare maglie americane che la merciaia Anna si era procurata a Bologna.
Per le trasferte si andava a giocare in bicicletta, a Modena però in treno.
Nel 1948 venne fondata la Polisportiva: Nino vi aderì proseguendo l’attività di dirigente delle squadre giovanili nei Campionati UISP, e le soddisfazioni non mancarono.
Nel 1949/50 vinse il Campionato Provinciale.
Negli anni 1957/58 e 1958/59 fu chiamato a ricoprire, oltre al ruolo di dirigente, anche quello di allenatore che, evidentemente, gli era congeniale perché vinse il Campionato provinciale in entrambi gli anni.
Nel 1959/60 vinse il Campionato Provinciale Seniores e infine, nel 1970, con la fusione fra Polisportiva e F.C. Spilamberto, decise di lasciare.
Un ringraziamento è dovuto a Nino Olivieri dagli spilambertesi per tutte le energie fisiche e mentali che ha messo al servizio dei nostri giovani e per il supporto educativo alle famiglie, oltre che per i meriti sportivi.

[Tratto dall’articolo pubblicato sul periodico “Fatti nostri” nel numero di dicembre 2005.]