venerdì 30 gennaio 2015

NOTIZIE DALL'ARCHIVIO / 8: CLASSE I MEDIA: GIORNO DI VISITE PER MESSER FILIPPO


La porta del Torrione non si vuole aprire, insensibile all’impaziente attesa della torma di ragazzi immersi nel caos del mercato settimanale. Il sole ci ha regalato una gradevole passeggiata in questo strano inverno. Andiamo a vedere la cella di Messer Filippo. In aula, prima di partire, anche la lavagna luminosa non si voleva accendere. Bisognava proiettare la figura del nostro beneamato fantasma, occorreva presentarlo, ambientarlo nel propria epoca...questi contrattempi posti alla nostra attività non sembravano di buon auspicio. Ma la sua cella, lassù, ci aspettava. Lungo la scala, dopo che la porta, cedendo alle nostre insistenze, si era aperta, le voci dei ragazzi iniziano a penetrare la chiusa atmosfera delle ripide e strette scale. Sul primo pianerottolo il monumentale chiavistello ci schiude ad altre scale, ad altri ambienti e, finalmente, ecco la Sua angusta prigione, innaturale ad accogliere un essere umano.  “Sono Fermano”, ha scritto sulla parete, perciò di Fermo nella regione Marche... e la leggenda dell’affascinante spagnolo venuto dal mare comincia a sfaldarsi: è marchigiano! Poi si parla di intrighi, ragioni politiche, nobili famiglie in contrasto, in lotta nel Centro Italia; le paure del Papa, gli Estensi, i Rangoni: la narrazione dei fatti storici abbatte del tutto la costruzione fantastica che avvolge la figura del nostro caro Filippo, ma noi troveremo il modo di richiamarla, la leggenda. La natura umana ha bisogno del fascino della fantasia per essere riscaldata! Davanti alla cella e ai pannelli che riportano i disegni di Filippo sta a noi proporre domande ai ragazzi. « Quali elementi hanno contribuito a far nascere la leggenda? Come si può vivere in una cella così ristretta?... » I ragazzi si scatenano in ipotesi e ci sorprendono con le loro intuizioni; ma, come al solito, rispondono anche con porre altre domande. E la discussione continua. Inaspettatamente ci raggiunge “la Paolina”: ci informa che un’esperta ha provato ad intervenire sui disegni con una speciale sostanza e, questa è la piacevole sorpresa, se ne potrebbero recuperare anche un 50 % dall’attuale situazione. Infatti una cattiva manutenzione, o l’abbandono, dopo la loro scoperta nel 1947, li ha nascosti o cancellati. Poi, Paolina sollecita gli alunni alla responsabilità di tutelare i beni culturali, all’importanza di evitare scritte o graffiti; ai giovani, infatti, spetterà la loro custodia, la preservazione, per affidarli alle generazioni future. Ormai occorre tornare a scuola, la campanella presto suonerà. Si parte e “Messer Filippo rimane”. Al nostro mitico prigioniero resterà certo la tenue gioia di questa vociante invasione, della entusiasta curiosità, e di questa improvvisa vitalità che ha un po’ riscaldato le vecchie fredde mura!

sabato 24 gennaio 2015

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 7: UNA TERRIBILE CORDA SUL TORRIONE!


L’antica “Torre granda”, l’attuale Torrione (prospetto nord).
Nel lontano passato, salendo le scale avremmo trovato... ?

Waterboarding e alimentazione rettale, in pratica torture, erano alcune delle tecniche di interrogatorio usate dalla CIA per costringere i terroristi a rivelare informazioni o a confessare.
Le rivelazioni su questo fatto hanno sollevato grande scalpore e in genere condanna. Infatti, a partire dalla fine del ‘700, l’evoluzione civile e culturale ha portato all’abolizione di questi lesivi metodi coercitivi. Riferendosi a questo argomento, il giornalista e scrittore Corrado Augias afferma che, se venisse annunciata l’esecuzione di una pena capitale in una piazza, una moltitudine di persone accorrerebbe con telefonini e tablet.
Nel ‘600 invece torture e uccisioni erano pratiche normalmente previste e attiravano molto pubblico. Nemmeno il territorio di Spilamberto si differenziava. Nutrite testimonianze provengono dal periodo in cui la marchesa Bianca Rangoni governava questo feudo. Per chi trasgrediva le regole contenute nelle sue gride, le punizioni erano già preordinate. La tortura più usata era quella dei “tratti di corda”: i polsi del condannato erano legati dietro la schiena e sollevati per mezzo di una “girella”, generalmente per tre volte, intervallate dall’allentamento della corda stessa. Le braccia risultavano slogate irrimediabilmente!
Altra pratica era lo squartamento del condannato. Non c’erano tablet né telefonini, ma ciascuna delle quattro parti in cui era diviso il corpo del giustiziato era esposta in pubblico come ammonizione.
La Marchesa poteva infliggere tali punizioni in virtù del feudale “potere di banno” attribuito ad ogni “Signore”.
Un documento, presente nell’Archivio Storico Comunale di Spilamberto, ci informa che strumenti per eseguire le condanne erano conservati nella “Torre granda” (il Torrione) che fungeva anche da prigione.
Parte del testo originale datato 1606, in cui compare l’inventario dei beni del Comune di Spilamberto, elenca quanto segue:




“[…] Et poi un ceppo di legno con li suoi arnesi per mettere alli piedi 
delli prigioni et con un altro ceppo per taliar la testa.
Et poi una fune grossa per dar la corda in pubblico con il 
suo legno et cirella […]”.

Alla fine di ogni grida emessa da Bianca Rangoni si trovava scritto 

“che ogn’un si guardi”,

ammonimento a non trasgredire quanto veniva imposto ai suoi sudditi!

mercoledì 21 gennaio 2015

NOTIZIE DALL'ARCHIVIO / 7: CLASSE II MEDIA: VIAGGIO NEL TESSUTO PROTOINDUSTRIALE DELLA SPILAMBERTO DI BIANCA RANGONI


Seconda puntata: un caso di spionaggio industriale nel lontano ‘600

La marchesa Bianca, dopo aver introdotto nel paese la cartiera, diede avvio anche all’industria della “Concia”, la lavorazione delle pelli di mucca, e alla “Filanda”. Era l’inizio del ‘600, e per quest’ultimo opificio venivano sfruttate le acque del “Canalino” che, appositamente costruito per volere della “Signora”, attraversava l’antico Castello.
Il Filatoio produceva il filo di seta che, avvolto in matasse, veniva esportato per essere tessuto. L’opificio è rimasto in funzione fino alle soglie della Seconda guerra mondiale, con grande vantaggio per i tanti che vi lavoravano, non soltanto spilambertesi.
Il modo in cui si ricava il filo di seta meraviglia i ragazzi, che ascoltano attentamente ed intervengono con osservazioni e domande: il baco emette una bava che si consolida nel filo formando il bozzolo, dentro al quale questa larva si protegge.
I bachi venivano tenuti sulle “arelle”, nei sottotetti, con foglie di gelso (cibo di cui si nutrivano). Attorno alla metà di giugno il bozzolo, pronto, veniva venduto sotto il portico, il “Pavaglione”, dell’antico Palazzo Rangoni (ora detto “Portico di Bondi”). Questo mercato era già attivo nel Cinquecento.
Una delle operazioni per ottenere il prezioso filo di seta consisteva nell’immergere i bozzoli (i “filugelli”) nell’acqua bollente e occorrevano movimenti delicati delle mani per dipanare il filato, quindi quelli di donne e bambini, che lavoravano dall’alba al tramonto (12/14 ore) e spesso si ammalavano.




Ma come è giunta la tecnica di produzione da noi? Nella nostra Spilamberto?
La Marchesa, sempre Lei!, fece venire in gran segreto il filatore Ugolino da Bologna, “Ugolino filatogliere”, perché rivelasse i segreti dei filatoi bolognesi, allora all’avanguardia. L’operazione riuscì brillantemente, il filatoio fu impiantato, ma ... il “traditore” fu scoperto. Oggi se la sarebbe cavata con una multa, allora invece finì impiccato dai bolognesi. L’esempio doveva servire ai futuri malintenzionati!
Spilamberto, quindi, avviò una fiorente attività anche se frutto di un sotterfugio: uno storico esempio di spionaggio industriale!

mercoledì 14 gennaio 2015

NOTIZIE DALL'ARCHIVIO / 6: CLASSE II MEDIA: VIAGGIO NEL TESSUTO PROTOINDUSTRIALE DELLA SPILAMBERTO DI BIANCA RANGONI



Prima puntata: lo stemma ritrovato

Il ricco materiale attinto dall’archivio storico di Spilamberto sforna storie, spigolature, curiosi collegamenti con il presente e tiene avvinti per due ore, a bocca aperta, gli alunni della seconda classe.
Oggi viaggiamo nel primo ‘600; il nostro paese precorre la rivoluzione industriale e ... “la colpevole” è Lei, la marchesa Bianca Rangoni.
Certamente Spilamberto ci ha messo del suo: da sempre si distingue per una grande ricchezza d’acqua, non solo per il Panaro che lo lambisce, ma anche per i vari canali che lo percorrono e che con la loro acqua danno vitalità a mulini ed opifici.
I folloni della cartiera, voluta dalla “Signora”, muovendosi ritmicamente pestavano stracci, messi preventivamente a macerare, che poi in fogli collati con resina si trasformavano in carta. Carta sì, non anonima, ma con lo stemma Rangoni nella filigrana. Ecco, che il ricordo di Bianca e del suo Casato rimarrà per sempre, anche nelle carte dell’Archivio della sua Spilamberto, che ha sempre privilegiato nei confronti degli altri territori che governava.

giovedì 8 gennaio 2015

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 6: UN "CIGNO NERO" DAL '500


Sono ormai sei anni che sentiamo nei media e ritroviamo nelle nostre esistenze la presenza di questa parola. Si abbattono su di noi cifre continue su disoccupazione, chiusura di fabbriche e negozi, fallimenti, suicidi, tagli alla spesa e ai servizi e così via. Si dice che tutto sia partito da una crisi finanziaria: i cosiddetti derivati.
Una congiuntura terribilmente sfavorevole si verificò anche a Spilamberto alla fine del ‘500, proprio quando il commissario Armati vi giunse e inviò la lettera da noi riportata in una “Caramella” precedente. Si tratta di una tragica situazione che si trascinò vari decenni e caratterizzò l’intera l’Europa mediterranea. Tra le cause si evidenziano il clima sfavorevole della primavera e dell’inverno 1590, e la conseguente carestia che colpì un mondo in cui la produzione agricola era già poco fiorente. Ricordiamo come il Manzoni ci descrive nel “Romanzo” la carestia del 1628 attraverso gli occhi di fra Cristoforo:
« [...] Alcuni (contadini) andavano gettando le semente, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme […]. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba […] ».

La scena colpisce emotivamente, ma sembra quasi idillica rispetto alle condizioni di Spilamberto come sono state ricostruite da Criseide Sassatelli nel libro “Che ogn’un si guardi”, consultando documenti di archivi modenesi e spilambertesi. Ecco le sue parole:

« […] i banditi spadroneggiavano impunemente. Le leggi non venivano osservate e non vi era forza umana o autorità giuridica che potesse farle rispettare. Si moriva perché aggrediti. La paura dei delinquenti era costante. E chi veniva ucciso non sempre poteva ottenere una sepoltura cristiana, poiché era anche molto pericoloso “levare” il corpo dal luogo del delitto: si trattava comunque di una precauzione necessaria per far sì che “gli cani non lo mangiassero [...]. Molte persone morivano di stenti e si cibavano di pane prodotto con farine derivate dalla macinazione o dei vinaccioli o delle bacche della rosa canina, “le pertelenghe”, e perfino dei gusci delle noci; mangiavano “qualsiasi” tipo di erbe; si nutrivano di sangue, di polmoni e di interiora di animali [...] ».

Per tutto questo il Parroco della chiesa di Sant’Adriano, Don Giulio Becetti, si rivolse al Duca a Ferrara per chiedere aiuto. Nella sua lettera del 1591 si dispera « per l’impossibilità di soccorrere i “corpi” e le “anime” degli abitanti di Spilamberto. Nelle già modeste abitazioni non vi erano più nemmeno miseri arredi e rozzi utensili; mancavano gli strumenti per coltivare campi ed orti: ogni oggetto era stato impegnato al Banco degli ebrei. I contadini che non morivano vagavano disperati, abbandonando i terreni che non avevano potuto seminare, sia per mancanza di sementi sia per la loro debilitazione fisica, “non avevano fiato”. Altri, che invece in autunno avevano tentato disperatamente di assicurarsi un raccolto, seppur scarso, si rassegnavano ad allontanarsi [...] . La già elevata mortalità era destinata ad aumentare; le persone moribonde si accasciavano nelle strade e nelle piazze, e vi era la certezza che, se non fossero giunti al più presto aiuti, il paese si sarebbe totalmente spopolato [...] ».

Concludiamo ora, definendo, con fine scaramantico, la situazione descritta dal documento un “cigno nero”, in quanto evento inaspettato e di forte impatto, sperando non possa ripresentarsi tale e quale come conseguenza della crisi di oggi!

lunedì 5 gennaio 2015

NOTIZIE DALL'ARCHIVIO / 5: CLASSE SECONDA MEDIA: CAMMINANDO SOPRA LE ACQUE DEGLI ANTICHI CANALI

Imprigionata in una fastidiosa nebbia, l’aria è fredda ... presagio di neve.
Usciamo dall’aula scolastica per seguire chi non c’è più. Il paese, un tempo solcato da diversi canali e da numerose “canalette di scolo”, le cosiddette maleodoranti “canole”, ora rivela corsi d’acqua soltanto fuori dall’abitato. La ricerca diventa, quindi, una caccia a griglie e bocchette; un percorso però certificato da documenti, mappe, fotografie, oltre che dalla memoria di chi ha visto questi canali e ne ha sentito il mormorio.
Si parte dal vecchio mulino di cui rimane l’impronta della ruota e le macine (ubicazione: incontro tra viale Rimembranze e via F. Roncati). C’è un’aria festaiola: è l’ultimo giorno di lezione prima delle vacanze natalizie, ce lo dice l’allegro brusio dei ragazzi.
Il Canale Diamante costeggia la casa sede dell’antica Concia (risalente alla fine del secolo XVI/ inizio XVII; fig. 1-2); all’incrocio con via Pace, nelle parole e nei ricordi della guida, si rivede il ponte sul detto canale (fig. 3)




 





“Camminando sopra il Diamante” raggiungiamo una squallida e bassa costruzione (in via del Carmine), ora magazzino. Un tempo, riparate da una tettoia, c’erano le vasche dove le donne lavavano i panni: il lavatoio alimentato dal Diamante rinasce nelle nostre menti e percepiamo il piacevole chiacchiericcio di chi insaponava e risciacquava la biancheria.
Oltrepassiamo il sagrato della chiesa del Carmine e risaliamo il canale verso S. Pellegrino, percorrendo il vialetto pedonale che attraversa il Villaggio Resistenza. Ci sorprende un tratto in cui, quasi miracolosamente, il Canale appare scoperto; ci voleva, altrimenti i ragazzi potevano pensare a un fantasma!
Dopo il supermercato Coop, è quasi da bocca aperta l’incontro con il Canale San Pietro, a cui il Diamante si affianca, derivando la propria acqua direttamente dal Panaro (fig. 4-5)







Ritorniamo un po’ indietro e, ormai abbiamo fatto allenamento, rivediamo il luogo dove sorgeva l’antico “Follo della carta”, la cartiera voluta dalla marchesa Bianca Rangoni tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento (fig. 6).



 

Al ritorno seguiamo il “Canalino castellano” che, questo sì, si dirama dal San Pietro, entra sempre sottotraccia in Spilamberto costeggiando inizialmente via San Pellegrino (fig. 7), successivamente via Matteotti. Un tempo le sue acque limpide erano meta delle lavandaie che vi affondavano i panni nel caldo dell’estate e nel gelo dell’inverno.



Ormai siamo dentro il Castello.
I ragazzi sanno bene che a Spilamberto il Castello non è quella costruzione che hanno visto nei film di Disney, ma l’abitato un tempo cinto dalle mura.
Seguiamo ancora il corso del Canalino all’interno di un piccolo cortile che accende i ricordi della guida: un pozzo in cui un secchio pescava l’acqua, la piccola vasca trasformata in lavatoio, il balconcino del pranzo a mezzogiorno... non ci manca nemmeno l’odore sgradevole delle “canole”, tanto vero che i ragazzi credono di percepirlo ancora.
Ecco il bar “Zucchero Filato” che ci ricorda che siamo nell’antica Filanda, voluta da Bianca Rangoni (impiantata nel 1610), e la foto all’interno ci avvicina alle vecchie operaie con il burbero sorvegliante (fig. 8).



I canali ci hanno condotto alla scoperta dei tre opifici che la “Marchesa di Spilamberto” aveva fatto costruire tra Cinquecento e Seicento, con l’intenzione di risollevarne le esauste condizioni economiche in cui si trovava il suo Castello.
A questo punto i ragazzi chiedono insistentemente l’ora, non vogliono rientrare in aula prima del termine delle lezioni... rimediamo intervenendo in loro soccorso mostrando le vecchie mura attualmente in restauro... ma ormai la mattinata è alla conclusione, e .... la missione compiuta!

(Fotografie da raccolta privata e Archivio Biblioteca comunale di Spilamberto)