mercoledì 30 agosto 2017

LA MEMORIA IN TAVOLA - LE RICETTE DI MARNA / 3

La frenesia del pomodoro

Seconda parte


Pastello di Cristina Grandi


Ho sempre pensato che tutta l’agitazione e la frenesia che contornavano la preparazione della conserva fossero prerogative di casa nostra, ma mi sbagliavo, lo erano di tanti. Capitai a casa di Bruna mentre faceva la conserva per sé e per tutta la sua numerosa famiglia. Era sola, davanti alla caldaia bollente. Circondata dai pomodori, lavati e non lavati, un po’ cotti e un po’ da cuocere, da vasi e barattoli da riempire, mestoli, imbuti e canovacci, tutta sudata non sapeva da che parte girarsi e cosa fare. Mi guardò malamente quando mi vide e, senza pensare, mi disse: «Se l’è gnuda ché par aiuterem, bèin, altrimeinti la pol turnèr din da l’è gnuda!». Voltai la bicicletta e tornai a casa.
Tantissime volte, quando con Bruna si parlava dei lavori stressanti e faticosi che era solita fare, evocavamo quell’episodio e ne ridevamo serenamente.
Preparo oggi la conserva con lo stesso procedimento. I mezzi sono cambiati, non c’è più il fuoco a legna e la manovella da girare. È un rito che ripeto ogni anno con quantitativi minori, ma sempre con lo stesso procedimento e sempre a luna calante.
La scoperta del pomodoro e in particolare l’invenzione della salsa che ne deriva hanno contribuito a cambiare sostanzialmente la cucina, e in particolare a valorizzare i vari condimenti per la pasta.
Solanum Licopersicum è il nome dato da Linneo nel 1753 a questo frutto. Lyco-persicum significa “Pesca dei lupi”, chissà perché questo nome!
Il pomodoro è originario del Centro-Sud America: Messico e Perù
Gli aztechi lo chiamarono Xitomalt e in alcuni paesi è ancora chiamato Tomato; Hernàn Cortés, dopo la scoperta dell’America, ne portò in Spagna alcuni esemplari, ma la sua diffusione si ebbe solamente nel XVIII secolo
L’industria del pomodoro italiana ha avuto la sua culla a Parma nel 1865; dieci anni più tardi, il torinese Francesco Cirio creò a Napoli la prima industria conserviera commerciale.

La mia conserva o salsa di pomodoro:
per ottenere una buona salsa la differenza la fa il pomodoro; solitamente io acquisto la varietà Perini, coltivati in Emilia; i pomodori devono essere ben maturi e sani.

Ricetta:
lavare i pomodori e scottarli in acqua bollente; quando la pelle inizia a rompersi, scolarli, farli sgocciolare bene e passarli per la macchina apposita; assaggiare il risultato, insaporire con sale fine, mescolare bene; se fosse acida aggiungere un pizzico di zucchero; invasettare e sterilizzare a bagnomaria per almeno 30 minuti; lasciare raffreddare i vasi nell’acqua di bollitura; riporre in luogo asciutto, fresco e al riparo della luce.
Consiglio di consumare la salsa entro l’anno.

Salsa speciale da consumare fresca
Per questa straordinaria salsa occorre un pomodoro speciale. Le varietà da utilizzare sono: il ciliegino o il datterino. Per anni ho coltivato io le piantine con dei semi che mi avevano regalato, e sono stati gli anni in cui ho ottenuto i migliori risultati; lo stesso accadeva quando ricevevo i datterini dal mio papà che come me li coltivava nel suo orto. Gli ingredienti variano in base al quantitativo e al gusto personale.
Occorre lavare, dimezzare e privare dei semi i pomodori; sono essi che conferiscono la nota acida alla salsa. Metterli in uno scolapasta per far loro perdere l’acqua di vegetazione.
In una larga e bassa padella scaldare dell’olio extravergine di oliva con dell’aglio leggermente schiacciato, ma intero e con la sua camicia, insieme ad un rametto di basilico. Quando gli aromi iniziano a sfrigolare, aggiungere i pomodorini, farli cuocere a fuoco vivace, togliere gli aromi e, ancora caldi, passarli al setaccio con l’aiuto di una spatola. Questo procedimento è quello che fa la differenza. Si ottiene una salsa molto cremosa che avvolge meglio la pasta; la buccia viene separata completamente dalla polpa senza subire la continua pressione di un passaverdure. Congelata in piccole porzioni non subisce nessun cambiamento al momento della sua utilizzazione.

Conserva con odori
Seguendo i propri gusti per i quantitativi, si tagliano non troppo finemente cipolla, sedano, carota. Si mettono le verdure in una pentola con i pomodori lavati, privati dei semi e a pezzi. Si lascia cuocere il tutto fino a quando la carota risulta ben cotta. Si passa la salsa, la si rimette sul fuoco con del basilico fresco e la si fa ridurre. Poco prima di spegnere si toglie il basilico e si sala. Mettere nei barattoli, aggiungere un velo di olio, sterilizzare a bagnomaria per almeno 30 minuti. Lasciare raffreddare i vasi nell’acqua di bollitura.
Riporre i barattoli in luogo asciutto e fresco, consumare entro l’anno.
Nonostante la possibilità di conservare questo preparato è molto apprezzabile fresco.
La salsa è un classico per gli spaghetti.
Cotti gli spaghetti condire prima con burro fresco, poi unire la salsa e servire con parmigiano.

lunedì 28 agosto 2017

LA MEMORIA IN TAVOLA - LE RICETTE DI MARNA / 2°

LA FRENESIA DEL POMODORO

Prima Parte


Una pagina dal nutrito libro di ricette scritte da Marna Malavasi Soli


In casa la tensione aumentava. Spesso si parlava a voce alta, ogni argomento era un pretesto per aprire una discussione; anche i movimenti del corpo tradivano irrequietudine e irritabilità. «Dobbiamo fare la conserva!», diceva mio padre.
Stavano maturando i pomodori; mentalmente occorreva prepararsi al lungo lavoro. La luna doveva essere in fase calante. Era tradizione rispettare quella regola.
Poi arrivavano loro, le casse piene dei grossi frutti rossi che venivano adagiati su fogli di giornale, dove completavano la maturazione: una parte di acqua se ne andava, ma i frutti diventavano più polposi e saporiti.
Davanti a quel locale, i pomodori dopo il riposo parlavano con il loro profumo: ricordava quello del sugo lungamente cotto e concentrato.
Il tempo quei giorni durava meno.
Alle cinque del mattino il fuoco della legna ardeva già sotto alla caldaia di rame colma d’acqua; nell’albio, il suo scroscio segnava l’inizio del lavaggio.
Quando la caldaia bolliva si immergevano i pomodori e l’elevato calore provocava leggere fenditure nella loro pelle turgida. Erano cotti; con un colino di vimini, a grandi fessure, venivano messi a sgocciolare in basse cassette di legno (quelle utilizzate per l’imballaggio della frutta) ricoperte da canovacci, residui di lenzuola ormai lise; a terra, un sasso o una pietra le teneva rialzate, in obliquo, per agevolare la fuoriuscita del liquido di vegetazione da eliminare.
I pomodori che non avevano ceduto al calore venivano bucati con una forchetta e un guizzo di liquido fuoriusciva; sgonfiandosi lentamente rilasciavano ciò che era rimasto al loro interno. Più liquido usciva, più densa e rossa sarebbe risultata la conserva.
Il ritmo incessante del lavoro non lasciava spazio a conversazioni, tanto meno a uno spuntino: guai mangiare un po’ di pane o gnocco! Una sola briciola caduta inavvertitamente poteva compromettere il risultato di tutto il lavoro.
I pomodori dalla terra al secchio, nell’acqua, nella caldaia, nelle cassette, senza cali di ritmo. Ed ecco la lunga fila di cassette allineate, sgocciolanti; il rigagnolo di acqua giallognola giungeva allo scarico.
Agganciata a una panca di legno la macchina a manovella accoglieva le cucchiaiate fumanti; da una parte usciva una cascata di salsa rossa raccolta da un largo tegame, dalla parte opposta gli scarti.
La passata veniva poi messa nelle bottiglie di vetro ben lavate e pulite che, avvolte in vecchi stracci, erano sterilizzate nell’acqua di cottura della caldaia.
La sterilizzazione durava 40 minuti, mentre il fuoco veniva alimentato in continuazione; intanto si riordinava e lavava l’enorme quantità di cose utilizzate: mestoli, imbuti, tegami, ingranaggi della macchina, strofinacci, teli, grembiuli.
L’indomani le bottiglie venivano sistemate in cantina, quale scorta per tutto l’anno. L’ultimo lavoro, quello più ingrato, era pulire la caldaia di rame; dopo averla ben lavata e asciugata, brillava, poi, lentamente, diventava azzurrina, si ossidava e affiorava il verderame.
Per questa pulitura ecco la ricetta di zia Luisa:
1.      Aceto e sale, lavare e risciacquare con precisione.
2.      Calinda e sabbia, fregare e sciacquare molto bene.
3.      Asciugare alla perfezione.
La Calinda era una polvere bianca utilizzata per la pulizia dei bagni, tegami di alluminio e altro. Chissà se è ancora in vendita.
Quando la conserva veniva preparata da mia nonna Annetta, lei comprava in farmacia l’acido salicilico, la cosiddetta “dose”. Il farmacista, in base al peso della salsa preparata, consegnava una microscopica bustina con la porzione del conservante; aggiunto alla passata non occorreva sterilizzarla.
Prima della conserva fatta in casa, la si comperava in negozio sotto forma di concentrato e si poteva acquistare a peso.

Arrivederci alla “seconda parte”!

martedì 8 agosto 2017

CAPRICCI DIALETTALI / 12

LA FUNTANA ED VIA OBICI



(La fontana di via Obici fotografata prima della sua scomparsa)


Con tótt sti cambiamèint
óna matèina a i'ho avù un presentimèint:
duv'éla la funtàna? L'è sparìda.
Forse i l'han rapìda.

Povra funtàna dla mé fanciulàzza!
A i'ho pruvèe óna gran tristàzza,
forse la ruvinéva al paesàg'
par chi l'éra ed passàg'.
Un zavài dal pasèe, un sìmbol dla povertèe
la deturpéva la modernitèe.

L'éra atàch a la préma clòuna ed via Obici da tant an,
un ricòrd importànt par la comunitèe,
chi pasèva al bvìva e as lavèva al man.

Cal piazèl an n'è pió quàl, trasfurmèe.
Ma che fastédi dèvla cla funtàna?
Tótt sparìi, tótt cambiée,
l'è diffìcil da spieghèr, a m'indespiés...

Ma possìbil che in l'àven ancàra capìda
che i cittadèin i van ascultèe,
ma con sti cambiamèint
l'è come parlèr al vèint!

A gh'è chi dis: "Come l'è bèl!".
Ma gi só: agh vdìv balùgh?
Che brutàzza cal piazèl!
As vad sol dal cemèint,
al vérd scurdèvel, la cura dal sol
par i vec' l'è un divertimèint.

Ma attenziòun: par consolaziòun
i han cambiée anch i lampiòun:
l'è tótta óna rivoluziòun,
anch se i éren piò bée qui ch'a gh'éra,
i pèren dal frost par al zabaiòun.

Vlìv vàder che la funtàna i l'han spustèda?
Forse parchè vècia sol cambiéda?
A spér, a m'àugur ed vàderla da quelch cantòun,
se no l'è òna bèla delusiòun!

Al pasèe al vèl anch par al novi generaziòun.


(testo di Laura Bertarelli tratto dal blog http://luigibarozzi.blogspot.it/ di giugno 2017)

giovedì 3 agosto 2017

LE RECENSIONI DI NASCO /4 “LA SQUILLA RAPITA” (2° parte)


(Disegno di Fabiano Amadessi)


Un menu spilambertese

La vicenda della “Squilla” si svolge al tempo in cui Federico Barbarossa e il Papa “si rompean le ossa” l’un l’altro.
L’Imperatore era sostenuto dai modenesi “perché il confine come a tutti è chiaro / era proprio nel mezzo del Panaro”. Anche S. Cesario era collegato con i modenesi ed era “avamposto primario”. Informato delle ostilità il conte Boschetti, signore di S. Cesario, si preoccupa soprattutto di fare grande scorta di spaghetti. All’inizio i modenesi hanno la meglio e cingono d’assedio Castelfranco, ma questo procede con fatica. I modenesi allora trasmettono richieste di vettovaglie, uomini e soldi ai “Castelli” vicini. Boschetti non vuole privarsi di nulla, ma escogita di inviare un gruppo di sbandati del paese in modo da liberarsi di loro. Il capitano dei balordi era Piccardo Malferro che sarà il protagonista del poema: “Era costui d’ingegno, ma balzano, / tipografo, cantante, magistrato, / frequente all’oste più che allo scrivano, / più al vino che alle leggi dedicato, /sempre in baracca, sempre in compagnia / i giorni suoi passava in allegria.” Della stessa risma erano i suoi compagni.
Piccardo, chiamato dal Conte, viene spinto a partire per Castelfranco con la promessa di conquistare bottino, donne e vino. Egli, con ancora i fumi dell’alcol della sera precedente, “per via di un barillin di trebbianello”, accetta e giura. Torna dai compagni e riferisce la proposta, ma i suoi seguaci, trainati da Farinazzo, si alzano e rifiutano con una gran cagnara. Piccardo, vedendosela brutta, finge uno svenimento. A quel punto arriva un paggio, da parte del Conte, che li invita al banchetto d’addio e dà lettura del menù.
Tale lista di cibi è tipicamente modenese: noi, con una forzatura, l’abbiamo chiamata spilambertese, perché l’autore è di Spilamberto e l’elenco propone veramente un riassunto della nostra gastronomia. Leggendolo qui di seguito capirete perché l’allegra compagnia cambiò idea e accettò la proposta del Conte.

Tortellini nel brodo di cappone, / lasagne, maccheroni pasticciati, passatelli, risotto al peperone, / tagliatelle al ragù con maltagliati, / gramigna con salsiccia, minestrone, / strichetti al pomodoro delicati, / tortelloni grondanti burro fuso / con sopra un po’ di salvia come d’uso. /
Bollito sia di manzo che cappone, / mostarda con testina di vitello, / lenticchie, cotechino, uno zampone, / gnocco fritto salame, culatello, / tigelle da condire con l’aglione, o con, in cacciatora, un pollastrello. / Poi faraona arrosto con erbetta, / costaiole, salsiccia e una porchetta. /
Se pur rimane qualche bucanino, / si potrà aver frittelle ed erbazzone, / del grana stagionato perbenino, / dei borlenghi, prosciutto con melone, / noci col pane, pere e pecorino / e infine una montagna di bensone. / Da ber, sei damigiane di lambrusco / ed una botte di nocin vetusto.”


Buon appetito!