giovedì 30 novembre 2017

LA MEMORIA IN TAVOLA: LE RICETTE DI MARNA / 5

Pani neri di Natale di Antonietta


Prima parte

È impossibile descrivere il profumo e il sapore di questo dolce: è ricco di ingredienti che si amalgamo e si affinano con il passare dei giorni. Ogni volta che li bagno per mantenerli morbidi e sento il loro aroma percepisco il profumo del Natale.
Quando li preparava mia madre, metteva sul tagliere una montagna di farina che aumentava enormemente per tutti gli ingredienti che venivano aggiunti: burro, uova, zucchero e tanta frutta secca (quella che c’era a portata di mano), poi castagne secche cotte e tanto “savor” per riuscire a tenere assieme tutti gli ingredienti. Con l’aggiunta del “savor” il colore cambiava, diventava bruno e iniziava a sprigionare il gradevole profumo del mosto cotto e concentrato.
Quando ero piccola, a casa nostra, come nella maggior parte delle famiglie, non c’era un forno adatto; quello inserito nella stufa a legna era molto piccolo e poco funzionale. Terminato l’impasto, mia madre lo metteva in una grande terrina bianca, lo copriva con un telo pulito e, insieme, andavamo al forno del paese, da Baccolini,  per la cottura.
Per me questo era un momento magico. Arrivate sul posto, aspettando che si liberassero i forni, mi riempivo del profumo del pane che stava cuocendo… una meraviglia. Nel frattempo, su grandi teglie scure posate su di una enorme tavola di marmo bianco, mia madre dava all’impasto la forma arrotondata, di ciambella con il buco. Non era l’unica ad utilizzare quel forno per la cottura di dolci, e così nell’attesa diverse massaie, che si trovavano lì, spettegolavano mentre allineavano tortelli ripieni di marmellata, amaretti, ciambelle e coloratissimi pani neri rivestiti di canditi. Era il fornaio a dare il via alla cottura mantenendo l’ordine delle prime teglie preparate. Il profumo della stanza lentamente cambiava facendosi sempre più dolce e aromatico, anticipando il gusto di tutte quelle prelibatezze. Appena tolti dal forno, mia madre spennellava con una mistura scura i pani che diventavano così lucidissimi. I pani neri non erano il mio dolce natalizio preferito. Non amavo la loro durezza, ma rappresentavano comunque il Natale. Dopo essermi sposata, per anni ho evitato di riproporre questo dolce, ma poi ho desiderato riprovare quel gusto e non l’ho più abbandonato. Ora utilizzo la ricetta di mia zia che è la stessa di sua madre Antonietta. [...]

Arrivederci alla prossima settimana per la seconda parte: troverete... la ricetta di Antonietta!

mercoledì 22 novembre 2017

ROCCA DELLE MIE BRAME / 23

FINE '700

DIALOGO TRA ROCCA E TORRIONE




-Ma chi sono questi? Cosa vogliono?
-I francesi mia cara Rocca, i francesi.
-Uh! non sopporto questa gentaglia.
-I francesi, mia cara, i francesi.
-Dove sono le feste, i matrimoni, i pranzi sontuosi, i bei vestiti, che tu, mio imponente e serio Torrione, adocchiavi da lontano... e le carrozze, i giochi e le battute di caccia nel parco!
-I francesi, mia cara, stai calma.
-E tutti quegli splendidi gentiluomini nobili.
-I francesi, mia altezzosa compagna, hanno eliminato i privilegi della nobiltà; adesso sono tutti uguali: niente più titoli.
-E i Rangoni? Non li vedo. Sono scomparsi.
-I nuovi governanti si sono impadroniti dei beni feudali.
-Beni feudali? Ma la Rocca appartiene a loro, ai Rangoni!
-I beni feudali sono quelli che il Duca ha dato in concessione ai nobili, e i governanti francesi hanno deciso che la Rocca è feudale. Se ne sono appropriati, anche se il Marchese sostiene che è un bene allodiale, cioè suo personale.
-Prima i paesani mi facevano, a volte, compagnia, passavano qui dentro, nel tratto dal Panaro al Castello, mai nelle stanze! Ora me li trovo persino in quella del Trucco: risate sguaiate; e quei paroloni libertà, uguaglianza, patriottismo. Alcuni ambienti diventano quartiere per soldati, si riempiono anche di bacchette di carbone, dicono che siano per la polveriera.
-Già, quei francesi.
-Ho freddo, i camini sono spenti, c’è il gelo del vuoto. Nessuno si occupa di me. La sporcizia. Certe finestre rimangono aperte: l’umidità. Alcuni vetri sono stati rotti. I pavimenti sono ingombri di calcinacci: non è semplice calcina, ma splendidi affreschi che si staccano. Pensa, è stato usato come fermo un pezzo di una porta di splendida fattura. Che tristezza!
Questo il lamento della Rocca.

Il 12 ottobre 1796 il “Comitato di Governo degli Stati di Modena”, a seguito del Proclama riguardante la soppressione dei Feudi, confisca i beni feudali del territorio del Ducato; anche la Rocca viene avocata al Demanio. La famiglia Rangoni sostiene che è un bene allodiale, privato, e in un documento del 1807 la definisce “Palazzo”, utilizzata sia come residenza sia come soggiorno estivo e autunnale. Nella Rocca, si afferma, non sono mai esistiti: “Locali per la Custodia dei delinquenti [] Raccogliesi dai Libri di Casa che considerabili somme sono state anche negli ultimi anni impiegate nella riedificazione di tale fabbricato [...] anche la prima pietra del Palazzo stesso, e sua edificazione, sia stata gettata, e seguita dagli antenati di tale Famiglia”.
Nel 1812 la Rocca torna ad essere proprietà Rangoni, in seguito alla restituzione dei beni ex feudali non venduti.

Ascoltiamo, però, con attenzione gli insistenti lamenti della superba Rocca: nelle sue parole si può già percepire l’ombra di una inevitabile e vicina decadenza. Il tempo confermerà.

mercoledì 15 novembre 2017

LE RECENSIONI DI NASCO / 4

“LA SQUILLA RAPITA”
(terza parte)


di Lamberto da Spiniosilva (pseudonimo di Silvio Cevolani),
Mercatino di via Obici, CXXVII Fiera di San Giovanni, Spilamberto, 24 giugno 1997.


Disegno di Gustavo Cevolani


Sintesi della puntata precedente

Il conte Boschetti di S. Cesario, per mezzo di un banchetto pantagruelico, convince Piccardo e il suo drappello di gran bevitori a muoversi in aiuto dell’imperatore Barbarossa. Questo era in guerra con il Papa e aveva posto l’assedio a Castelfranco.

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Dopo la grande abbuffata, senza sapere come, i prodi si risvegliano sul greto del Panaro. La scena è “patetica e penosa [...] mandavano un puzzo d’orinale/ che con gran gioia un rosso bastardino / saltellando annusava lì vicino”. Litigano subito sul da farsi, finché Piccardo fa notare che si trovano sul lato bolognese del fiume, in terra nemica. Si va alla ricerca di un guado, “Era d’estate e il fiume era ridotto / a poco più di un largo torrentello / profondo sì e no fino al panciotto. / Nondimeno, guadare fu un macello: / molti finiron con la testa sotto, / altri persero l’armi od il fardello / e fu un gruppetto di pulcin bagnati / che infin raggiunse i prospicienti prati. Un altro pisolino. Al risveglio l’esortazione di Piccardo di andare a compier la missione esalta a tal punto il loro eroico coraggio che “...freddini: ognun, pallido in volto oppur paonazzo, / di sottecchi guardava i suoi vicini/ come a esortarli a toglier l’imbarazzo: / ma intorno si vedean sol capi chini. Si accetta perciò la proposta di Farinazzo; egli convince anche Piccardo con del pignoletto che “a mo’ di precauzione, / seco portava dentro un bariletto” e si dirigono nella parte opposta, verso Spilamberto. “Era il cammino aspro e accidentato, sassi dovunque, arbusti in gran groviglio”. Sembra l’ingresso dell’inferno dantesco.

La fattoria del paese li accoglie con “un profumino / di cacciatora, o forse di soffritto”. Se inferno è, è quello di un’osteria. All’intimazione di Piccardo “di spalancar le ante” entra nella vicenda il primo spilambertese “ed una testa fece capolino / mostrando un volto invero un poco strano : / gialli i capelli, occhio malandrino, / la pelle da selvaggio americano, / ovverosia color rosso rubino [..]”, il contadino, un certo Bergonzini / più noto come Chiacchi all’osteria. Alla richiesta di cibo replica: “posso darvi fagioli e maltagliati, / se potete pagar cinque ducati”. L’affermazione sta per scatenare uno scontro quando entra in scena un protagonista che dà l’avvio vero e proprio alla vicenda. “Piccardo corse con la mano al brando / e già Chiacchi traea  fuori il forcone / ancor di sterco ricoperto, quando / dietro al fienil scoppiò gran confusione / d’alte voci che stavano gridando / in preda a gran trasporto di passione. / Emise Chiacchi un grido di dolore, / sbiancossi in volto e urlò: l’Imperatore!”.

mercoledì 8 novembre 2017

PAGINE DI DIARIO / 21

Da “Ricordi di una ragazzina”, di Liliana Malferrari
(stampato nel dicembre del 2015)


Parte quinta



(Fotografia di via Obici, ripresa dal lato nord.)


[...] Vorrei poter spiegare come era via Obici: una strada fatta di sassi, un portico bellissimo, una fontana all’inizio dei portici. Sempre all’inizio del porticato c’erano i gabinetti pubblici, sempre con tanta puzza. In via Obici c’erano tante “canole” alle quali si accedeva dalle abitazioni dei “birocciai”. C’erano le stalle con i cavalli, le sue “aldmere”. C’erano anche topi grossi come gatti, ma pochi gatti, perché in inverno molta gente li mangiava. È successo anche a noi.
A quel tempo si andava a prendere l’acqua alla fontana, con dei secchi. Nessuno aveva l’acqua in casa. L’acqua serviva per fare da mangiare e per lavarsi. Serviva per tutto. Dopo averla adoperata, ti serviva un altro secchio per metterci quella sporca e la portavi giù, nella fogna. Qualche abitazione aveva il pozzo: con una corda mollavi giù nel pozzo un secchio e lo tiravi su pieno.
Alla fine del portico c’era una osteria chiamata “Bucler”. Lì facevano anche qualcosa da mangiare.
C’era gente che suonava la chitarra e un mandolino e cantavano gli stornelli. Nella sua miseria era una via di gente allegra, ma anche strana. Sarà sempre la mia bella via Obici!
Nell’aprile del 1945 finì la guerra, ma non la fame. Avevo dieci anni e cominciò un altro periodo nero, ma piano piano si cominciò a ricostruire e cominciai a lavorare. Al mattino andavo a scuola, facevo la quinta elementare, e di pomeriggio andavo da una signora a badare a una bimba piccola. La portavo a spasso poi le preparavo la merenda: era un biberon di latte e dovevo metterci dentro quattro biscotti, ma due li mangiavo io di nascosto (però la bimba è cresciuta bene ugualmente).
Non avevo tanto tempo per giocare, così un giorno pensai di prendermi una vacanza e feci cabò. La mia cara amica Elettra aveva avuto il tifo e così non andava più a scuola. Tutti i giorni portava la sua papera a mangiare su un’altura della Rocca. Pensai di andare con lei a giocare. Dopo tre giorni mia madre se ne accorse e mi diede così tante botte che mi venne la febbre. Da allora non stetti mai più a casa da scuola e dal mio lavoro dalla signora!
Finito le scuole feci altri lavoretti per aiutare in casa. Ne ho fatti tanti di lavori. [...]

mercoledì 1 novembre 2017

SPILAMBERTO: UNO STRAPPO NELLA MEMORIA / 9°

Un sobbalzo per allontanare la forbice del Tempo



(Pastello di Cristina Grandi)


Non recidere, forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre. [...]”

La memoria secondo Montale è il luogo in cui il poeta conserva il viso della sua donna, grande nel ricordo e colto nella sua disponibilità all’ascolto. La preghiera è rivolta al tempo che, visto come forbici, taglia via tutto lasciando solo una inconsistente nebbia. La memoria, in questa poesia, è concepita come un serbatoio di ricordi, uno statico contenitore, preda e vittima predestinata della ferocia del tempo.
Ma la memoria è anche l’atto stesso del ricordare, una funzione attiva, consapevole; è fermare la mente per rievocare, perciò non è soltanto un magazzino di ciò che è stato, è il richiamare il passato anche dopo anni. Ce lo dice pure la sua etimologia. La parola memoria è formata da una radice “mer” presente anche in greco; indica inquietudine, il sobbalzare della consapevolezza. Quindi un’azione, non la stabilità; il momento in cui la memoria si mette in movimento consapevolmente nella singola persona per far uscire i ricordi dal cuore.
N.A.S.CO. vuole provocare questo sobbalzo per evitare il pericolo non solo del Tempo, ma anche della lontananza che ci separa dal nostro Archivio, anch’esso memoria che vogliamo viva e in mezzo a noi.