giovedì 8 gennaio 2015

CARAMELLE DALL'ARCHIVIO / 6: UN "CIGNO NERO" DAL '500


Sono ormai sei anni che sentiamo nei media e ritroviamo nelle nostre esistenze la presenza di questa parola. Si abbattono su di noi cifre continue su disoccupazione, chiusura di fabbriche e negozi, fallimenti, suicidi, tagli alla spesa e ai servizi e così via. Si dice che tutto sia partito da una crisi finanziaria: i cosiddetti derivati.
Una congiuntura terribilmente sfavorevole si verificò anche a Spilamberto alla fine del ‘500, proprio quando il commissario Armati vi giunse e inviò la lettera da noi riportata in una “Caramella” precedente. Si tratta di una tragica situazione che si trascinò vari decenni e caratterizzò l’intera l’Europa mediterranea. Tra le cause si evidenziano il clima sfavorevole della primavera e dell’inverno 1590, e la conseguente carestia che colpì un mondo in cui la produzione agricola era già poco fiorente. Ricordiamo come il Manzoni ci descrive nel “Romanzo” la carestia del 1628 attraverso gli occhi di fra Cristoforo:
« [...] Alcuni (contadini) andavano gettando le semente, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme […]. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba […] ».

La scena colpisce emotivamente, ma sembra quasi idillica rispetto alle condizioni di Spilamberto come sono state ricostruite da Criseide Sassatelli nel libro “Che ogn’un si guardi”, consultando documenti di archivi modenesi e spilambertesi. Ecco le sue parole:

« […] i banditi spadroneggiavano impunemente. Le leggi non venivano osservate e non vi era forza umana o autorità giuridica che potesse farle rispettare. Si moriva perché aggrediti. La paura dei delinquenti era costante. E chi veniva ucciso non sempre poteva ottenere una sepoltura cristiana, poiché era anche molto pericoloso “levare” il corpo dal luogo del delitto: si trattava comunque di una precauzione necessaria per far sì che “gli cani non lo mangiassero [...]. Molte persone morivano di stenti e si cibavano di pane prodotto con farine derivate dalla macinazione o dei vinaccioli o delle bacche della rosa canina, “le pertelenghe”, e perfino dei gusci delle noci; mangiavano “qualsiasi” tipo di erbe; si nutrivano di sangue, di polmoni e di interiora di animali [...] ».

Per tutto questo il Parroco della chiesa di Sant’Adriano, Don Giulio Becetti, si rivolse al Duca a Ferrara per chiedere aiuto. Nella sua lettera del 1591 si dispera « per l’impossibilità di soccorrere i “corpi” e le “anime” degli abitanti di Spilamberto. Nelle già modeste abitazioni non vi erano più nemmeno miseri arredi e rozzi utensili; mancavano gli strumenti per coltivare campi ed orti: ogni oggetto era stato impegnato al Banco degli ebrei. I contadini che non morivano vagavano disperati, abbandonando i terreni che non avevano potuto seminare, sia per mancanza di sementi sia per la loro debilitazione fisica, “non avevano fiato”. Altri, che invece in autunno avevano tentato disperatamente di assicurarsi un raccolto, seppur scarso, si rassegnavano ad allontanarsi [...] . La già elevata mortalità era destinata ad aumentare; le persone moribonde si accasciavano nelle strade e nelle piazze, e vi era la certezza che, se non fossero giunti al più presto aiuti, il paese si sarebbe totalmente spopolato [...] ».

Concludiamo ora, definendo, con fine scaramantico, la situazione descritta dal documento un “cigno nero”, in quanto evento inaspettato e di forte impatto, sperando non possa ripresentarsi tale e quale come conseguenza della crisi di oggi!

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