mercoledì 15 febbraio 2017

PAGINE DI DIARIO / 15

Da “Quel Piazzale della mia infanzia”, di Laura Bertarelli (stampato nel maggio del 2015).



(Castelvetro, 1943: Laura con il nonno paterno, Celso)


Parte sesta

[...] Nel periodo dell’ultima guerra si radunavano in parecchi in quella stanza detta “capunera” perché era a pianterreno ed è stata teatro di molte vicissitudini e paure, specialmente la sera quando passava “PIPPO” e bombardava (Pippo era un aereo americano).
Quante raccomandazioni e preghiere venivano dette, tutti appoggiati al muro, in camicia da notte o in pigiama, poi dopo il passaggio dell’aereo quante imprecazioni e maledizioni!
Questo ambiente per me e i miei cugini è stato parte integrante della nostra fanciullezza, aveva per noi un fascino speciale e credo che nessuno se lo sia scordato.
Ricordo, in autunno, le castagne che sobbollivano nel tegame sulla stufa riscaldata a legna o a forme rotonde che credo fosse segatura pressata o, come mi hanno riferito, vinacce torchiate; le partite a carte che la nonna faceva con noi nipoti, le risate, l’allegria per piccole cose, molta modestia e tanto buon cuore. La nonna Ida amava la compagnia e aiutava sempre chi aveva delle difficoltà e miseria nel vivere.
La nonna Bruna era una donna non molto alta, ma ben proporzionata con dei lineamenti fini. Anche per lei la miseria non mancò, raccontava che doveva fare a turno per uscire e aspettare le sorelle che rientrassero per indossare scarpe o vestiti.
Conobbe il nonno Celso a Bologna dove lei era a servizio e lui faceva il carabiniere.
Lavorava in una trattoria e doveva portare da mangiare in una casa di tolleranza. Era una ragazzina e quando il nonno la conobbe, e lei glielo raccontò, la fece ritornare a casa e si offrì di darle lui i pochi soldi che prendeva al mese.
Quando si sposarono, nel 1911 a Castelvetro, il loro matrimonio fu festoso perché ebbero i musicanti che li seguirono per tutta la giornata.
La loro fu una vita di duro lavoro, non potendo lui più stare nel corpo dei carabinieri, essendosi sposato, lavorarono entrambi come fornaciai.
Abitavano una casa modestissima vicino alla fornace, andavano a prendere l’acqua con i secchi al pozzo, che era distante dalla casa e il gabinetto era un casotto nel cortile.
La nonna aveva un carattere schivo e silenzioso, quanto era invece chiacchierone, allegro ed estroverso il nonno.
Si sono sempre voluti bene, il nonno era pieno di rispetto per lei e dove poteva l’aiutava con molta disponibilità. Erano  discreti e poco invadenti.
La nonna, come la maggioranza delle donne sposate, fu obbligata con rammarico a donare la sua fede nuziale al duce, ne portò sempre una d’acciaio.
Stravedevano per quel figlio unico che sarebbe diventato mio padre.
Dopo un inizio come apprendista muratore, con l’aiuto del padrone della fornace, all’età di diciassette anni, lo mandarono a Modena per imparare il mestiere di meccanico tornitore, con tanti sacrifici da parte loro che cercavano di non fargli mancare niente, anche se per mio padre, ancora un ragazzo, fu molto dura.
Dormiva nell’officina assieme al cane. A quei tempi pochissimi studiavano, specialmente se figli di povera gente.
Il nonno Celso era un socialista e, siccome era tra i pochi della sua età che sapevano leggere, comprava sempre il giornale l’Avanti e spiegava agli altri le notizie, non prive di commenti belli o brutti che fossero.
Raccontava spesso le avventure di quando da carabiniere  fece mettere le manette al pretore perché non aveva rispettato la legge.
Era simpatico, allegro e molto buono.
Portava d’inverno un mantello, o tabarro, residuo di quando era militare, fumava il sigaro toscano e lo masticava; aveva imparato a fumare  quando imperversava l’epidemia della spagnola e si diceva che fosse un disinfettante.
Forse perché i vestiti che portavano le nonne erano tutti uguali, scuri e lunghi, fazzoletti legati alla nuca o sotto il mento, sembravano più vecchie della loro età, le ricordo sempre uguali anche con il passare degli anni. [...]

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