lunedì 28 agosto 2017

LA MEMORIA IN TAVOLA - LE RICETTE DI MARNA / 2°

LA FRENESIA DEL POMODORO

Prima Parte


Una pagina dal nutrito libro di ricette scritte da Marna Malavasi Soli


In casa la tensione aumentava. Spesso si parlava a voce alta, ogni argomento era un pretesto per aprire una discussione; anche i movimenti del corpo tradivano irrequietudine e irritabilità. «Dobbiamo fare la conserva!», diceva mio padre.
Stavano maturando i pomodori; mentalmente occorreva prepararsi al lungo lavoro. La luna doveva essere in fase calante. Era tradizione rispettare quella regola.
Poi arrivavano loro, le casse piene dei grossi frutti rossi che venivano adagiati su fogli di giornale, dove completavano la maturazione: una parte di acqua se ne andava, ma i frutti diventavano più polposi e saporiti.
Davanti a quel locale, i pomodori dopo il riposo parlavano con il loro profumo: ricordava quello del sugo lungamente cotto e concentrato.
Il tempo quei giorni durava meno.
Alle cinque del mattino il fuoco della legna ardeva già sotto alla caldaia di rame colma d’acqua; nell’albio, il suo scroscio segnava l’inizio del lavaggio.
Quando la caldaia bolliva si immergevano i pomodori e l’elevato calore provocava leggere fenditure nella loro pelle turgida. Erano cotti; con un colino di vimini, a grandi fessure, venivano messi a sgocciolare in basse cassette di legno (quelle utilizzate per l’imballaggio della frutta) ricoperte da canovacci, residui di lenzuola ormai lise; a terra, un sasso o una pietra le teneva rialzate, in obliquo, per agevolare la fuoriuscita del liquido di vegetazione da eliminare.
I pomodori che non avevano ceduto al calore venivano bucati con una forchetta e un guizzo di liquido fuoriusciva; sgonfiandosi lentamente rilasciavano ciò che era rimasto al loro interno. Più liquido usciva, più densa e rossa sarebbe risultata la conserva.
Il ritmo incessante del lavoro non lasciava spazio a conversazioni, tanto meno a uno spuntino: guai mangiare un po’ di pane o gnocco! Una sola briciola caduta inavvertitamente poteva compromettere il risultato di tutto il lavoro.
I pomodori dalla terra al secchio, nell’acqua, nella caldaia, nelle cassette, senza cali di ritmo. Ed ecco la lunga fila di cassette allineate, sgocciolanti; il rigagnolo di acqua giallognola giungeva allo scarico.
Agganciata a una panca di legno la macchina a manovella accoglieva le cucchiaiate fumanti; da una parte usciva una cascata di salsa rossa raccolta da un largo tegame, dalla parte opposta gli scarti.
La passata veniva poi messa nelle bottiglie di vetro ben lavate e pulite che, avvolte in vecchi stracci, erano sterilizzate nell’acqua di cottura della caldaia.
La sterilizzazione durava 40 minuti, mentre il fuoco veniva alimentato in continuazione; intanto si riordinava e lavava l’enorme quantità di cose utilizzate: mestoli, imbuti, tegami, ingranaggi della macchina, strofinacci, teli, grembiuli.
L’indomani le bottiglie venivano sistemate in cantina, quale scorta per tutto l’anno. L’ultimo lavoro, quello più ingrato, era pulire la caldaia di rame; dopo averla ben lavata e asciugata, brillava, poi, lentamente, diventava azzurrina, si ossidava e affiorava il verderame.
Per questa pulitura ecco la ricetta di zia Luisa:
1.      Aceto e sale, lavare e risciacquare con precisione.
2.      Calinda e sabbia, fregare e sciacquare molto bene.
3.      Asciugare alla perfezione.
La Calinda era una polvere bianca utilizzata per la pulizia dei bagni, tegami di alluminio e altro. Chissà se è ancora in vendita.
Quando la conserva veniva preparata da mia nonna Annetta, lei comprava in farmacia l’acido salicilico, la cosiddetta “dose”. Il farmacista, in base al peso della salsa preparata, consegnava una microscopica bustina con la porzione del conservante; aggiunto alla passata non occorreva sterilizzarla.
Prima della conserva fatta in casa, la si comperava in negozio sotto forma di concentrato e si poteva acquistare a peso.

Arrivederci alla “seconda parte”!

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