giovedì 21 giugno 2018

SPILAMBERTESI DA RICORDARE / 9

Augusta Cantaroni



Lavava i panni nel fosso, dietro la Rocca. Era una bella mattina dell’aprile 1945, ma l’Augusta, china sull’acqua, pensava solo a quell’urlo nero che le rimaneva in gola dal 12 febbraio dell’anno prima.
Profumo di viole e di crescione, cinguettio di passeri e lo sciacquio del torrente; un rumore diverso ruppe l’idillio: il pianto sommesso di un ragazzo dietro la siepe del biancospino. L’Augusta incinta si alzò con fatica, scostò le fronde, fino a scoprire un ragazzetto biondo che piangeva, raggomitolato, come dentro di lei stava raggomitolato il suo bambino. Portava una divisa militare da tedasc. L’era un tedasc!
Il ragazzino terrorizzato, davanti alla donna incinta che lo guardava, vide in quello sguardo la pena di una madre; riuscì a spiegare che l’avrebbero trovato, che con quella divisa non poteva nascondersi, che sarebbe morto… o forse non spiegò nulla, fu lei a capire tutto.
E allora, quando il figlio maggiore dell’Augusta tornò dalla prigionia e cercò il suo vestito buono, lei con quel neonato in braccio, c’l’arcarvèva1 al nàm dal fradèl mort, gli spiegò che il vestito l’aveva regalato a un giovane tedesco.
L’Augusta gliel’aveva messo addosso quel vestito, perché lei il suo bellissimo figlio di diciannove anni,  morto impiccato quel 12 febbraio del ’44, a Pratomaggiore, non l’avrebbe visto più. Ma c’era una donna in Germania che forse suo figlio l’avrebbe ritrovato grazie a quel vestito buono, da civile.

Questa storia è vera.

Il neonato di allora partecipa ogni anno, insieme a suo fratello, il proprietario del vestito donato, alla celebrazione dell’eccidio di Pratomaggiore, in cui furono impiccati otto giovani partigiani, lasciati a penzolare per due giorni, come memento alla popolazione, con le madri sotto,  in attesa di poter riavere i corpi dei figli.
La storia raccontata dal figlio dell’Augusta, lo spilambertese Franco Nasi, continua a stupire per la grandezza d’animo e l’umanità che rivela.

1 Arcarvèr era usato solo per dire “ricordare un morto attraverso la imposizione dello stesso nome”.

(Redazione di Daniela Barozzi, da un racconto di Franco Nasi.)

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